domenica 31 ottobre 2010
CHI MANTIENE CHI? Rai, Santoro mantiene Vespa
Porta a Porta costa il doppio di Annozero, ma Bruno guadagna 5 volte Michele. Il costo di Porta a Porta per ogni mille ascoltatori è quasi il doppio di quello di Annozero
Sarà anche un’azienda pubblica, ma è pur sempre una società per azioni. Eppure scoprire quali sono i prodotti di successo della Rai e quali i bidoni è impresa da agenti segreti, perché i costi (e le perdite) dei singoli programmi sono tra i segreti meglio custoditi del Paese. Ma incrociando i dati ufficiali, si riesce comunque a rompere il muro di riservatezza che circonda viale Mazzini.Se consideriamo il 2009, ognuna delle 29 puntate annue di Annozero costa 194 mila euro e viene vista in media da quasi cinque milioni di persone (4.942.370) con uno share del 20,08 per cento. I costi vengono interamente coperti dai ricavi pubblicitari, che sono più del triplo: consultando il listino prezzi della Sipra, la concessionaria per la pubblicità della Rai, vediamo che ogni spot di Annozero della durata di 30 secondi, nell’autunno 2009, è stato venduto a prezzi oscillanti tra i 59 mila e i 66 mila euro. Annozero vende di media 20 spot per un totale di 600 secondi a serata.
Il listino prezzi degli spot
Su Rai1 Porta a Porta, il programma di Bruno Vespa, va in onda 110 volte all’anno più speciali estivi. Il costo della trasmissione è 70 mila euro a puntata, che lievitano a 84 mila quando passa in prima serata. L’ascolto medio è del 16,44 per cento di share con 1 milione e mezzo di telespettatori (1.410.314). Porta a porta riesce a vendere in media soltanto 360 secondi di pubblicità a serata al prezzo (dati Sipra dell’autunno 2009) di 28 mila euro ogni 30 secondi. 28 mila euro contro circa 60 mila: ma il confronto tra la “redditività” di Santoro e quella di Vespa deve tener conto del fatto che vanno in onda in orari e su reti diverse, Rai1 è più forte di Rai2, ma la seconda serata per gli inserzionisti vale molto meno del prime time . Si può però calcolare quanto devono pagare i telespettatori che pagano il canone per ciascuna delle due trasmissioni. I costi di Annozero, spalmati sui contribuenti, sono di 30 centesimi di euro ogni mille ascoltatori, per Porta a porta si spendono invece 50 centesimi. Solo L’Ultima parola, la trasmissione settimanale di Gianluigi Paragone in seconda serata su Rai2, costa più di quella di Vespa tra i programmi di informazione: 70 centesimi ogni mille ascoltatori se consideriamo i dati forniti dal conduttore stesso, 98 centesimi secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano. Le altre principali trasmissioni d’informazione della Rai sono, in proporzione, meno care: Report di Milena Gabanelli costa 40 centesimi ogni mille ascoltatori (e 139 mila euro a puntata) e Ballarò di Giovanni Floris 27 centesimi (e 110 mila a puntata). Ecco gli ascolti: quasi 4 milioni in media col 15,54 per cento di share per Ballarò, e quasi tre milioni per Report (12,22 per cento di share), entrambi su Rai3.Nonostante la Sipra si rifiuti di fornire i dati complessivi e dettagliati, sappiamo che Report, a novembre dell’anno scorso, ha venduto 720 secondi di pubblicità per ogni puntata. Prezzo: 55mila euro ogni 30 secondi. Ballarò ha venduto 360 secondi, proprio come Porta a porta, con la differenza però che gli inserzionisti hanno pagato per Floris 54mila euro ogni 30 secondi, circa il doppio che per Vespa. C’è però una variabile cruciale, e dunque riservatissima, per valutare nel concreto se un programma per la Rai è un affare o una palla al piede.
Lo sconto top secret
Quando l’azienda vende gli spazi pubblicitari agli inserzionisti, infatti, concede sconti del 40 o 50, persino 60 per cento. Si possono solo fare ipotesi: il pubblico di Santoro, per esempio, è più pregiato perché più giovane (nella fascia 43-53 anni), in quello di Vespa abbondano invece i pensionati, a basso reddito e dunque target secondario per la pubblicità. E’ fisiologico, quindi, che la Rai cerchi di incoraggiare l’acquisto di blocchi pubblicitari là dove sono meno redditizi, con vendite in blocco a prezzi scontati (possibili perché Porta a Porta va in onda molto spesso). Infatti al contrario di tutti gli altri programmi, che sono settimanali, Vespa occupa quattro sere a settimana (quando hanno cercato di ridurle a tre, Vespa ha risposto “lascio la Rai”). Un monopolio dell’informazione di Rai1, che non lascia spazio ad altre iniziative, nonostante gli ascolti inferiori agli standard della rete: se la media di Rai1 è del 21,15 per cento di share, Vespa col suo 16,44 per cento di ascolti va sotto quasi di cinque punti.
Anche l’Ultima parola abbassa la media di rete (di 1,1 punti di share) portando a casa 759 mila spettatori a fronte della media di 976 mila che ha Rai2 in seconda serata. Perde anche Lucia Annunziata su Rai3: il suo In mezz’ora, in onda nella fascia difficile della domenica pomeriggio (su Rai1 e Canale 5 ci sono i contenitori di varietà) , viene seguito dal 7,77 per cento di share rispetto a una media di rete dell’8,54 per cento. Ma la trasmissione dell’Annunziata non viene interrotta da break pubblicitari, inizia subito dopo il tg e viene seguita solo da promo di altri programmi di Rai3, dunque non pagati. Questo significa che i 25 mila euro lordi, cioè il costo di ogni puntata, non vengono coperti da alcun ricavo.
Gli stipendi non sono però proporzionati ai risultati di ascolto: in testa c’è infatti Bruno Vespa, con i suoi 2,12 milioni di euro all’anno. Vespa ha aumentano il suo stipendio base da 1,2 a 1,6 milioni di euro per 100 puntate, a cui aggiungere gli extra per le prime serate. Nella classifica seguono Santoro (662 mila euro) e Floris (500 mila euro di media). Anche se ha raccontato in diretta di guadagnare “solo mille euro lordi a puntate”, Paragone somma il gettone per la conduzione all’ingaggio da 160 mila euro lorde per la vicedirezione di Raidue. Lucia Annunziata incassa invece 8 mila euro lordi a puntata, la Gabanelli soltanto 150 mila all’anno, sempre lordi
Pensioni: i precari chiedono il conto
Questa mattina, diversi lavoratori precari, si sono dati appuntamento davanti alla sede INPS di Piazza Augusto Imperatore a Roma, per effettuare il calcolo delle loro future pensioni, con il risultato sconcertante di ritrovarsi, nella maggior parte dei casi, dopo 40 anni di contributi, con un assegno mensile che non supera i 500€.
L'appuntamento è stato lanciato dalla CGIL, dopo la provocatoria dichiarazione del Presidente dell’INPS, Antonio Mastrapasqua, secondo il quale se l'ente previdenziale dovesse “dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”. Una situazione verificata nelle cifre e nei volti preoccupati di chi, questa mattina, ottenuto l'estratto contributivo, si è recato al banchetto dell'INCA CGIL dove gli è stata prontamente calcolata la futura pensione.
È così che Marta, collaboratrice a progetto di una associazione del terzo settore, ha scoperto che, se non cambieranno gli attuali coefficienti di calcolo e le aliquote contributive per i lavoratori parasubordinati, si ritroverà a 65 anni di età con una pensione pari al 40% delle sue ultime retribuzioni, che nel suo caso significa all’incirca 450 euro al mese. Un caso simile ai molti altri che, durante la mattinata, sono stati intervistati dagli inviati della CGILtv.
Perché le pensioni dei lavoratori parasubordinati saranno così basse? Lo chiediamo ai dirigenti del NIdiL CGIL e dell'ufficio Politiche Giovanili della CGIL Nazionale, presenti all'iniziativa, che, al microfono della CGILtv, spiegano come una parte delle responsabilità deve essere attribuita alle basse retribuzioni dei precari, spesso non adeguate al lavoro svolto, ma anche che la questione non si esaurisce qui. Infatti, l'aliquota previdenziale per i parasubordinati è pari al 26%, a differenza dei dipendenti subordinati che versano il 33%, e, inoltre, i loro rapporti di lavoro sono per natura discontinui, e ciò pesa molto sulla contribuzione. Inoltre a gennaio il governo ha adottato i nuovi coefficienti penalizzanti di calcolo della pensione, senza istituire l’apposito tavolo con le organizzazioni sindacali: un tavolo, previsto dal protocollo sul welfare del 23 luglio 2007, che dovrebbe avere il compito di adeguare i coefficienti per assicurare pensioni dignitose a tutti.
Una situazione nota al sindacato da tempo. Già dal 2009 NIdiL CGIL, con una petizione che ha raccolto 30.000 firme, ha chiesto che la pensione fosse pari almeno al 60% delle ultime retribuzioni, un requisito minimo per poter garantire pensioni dignitose ai lavoratori precari. NIdiL CGIL ha inoltre chiesto che i compensi dei lavoratori parasubordinati siano agganciati ai minimi dei contratti nazionali di riferimento per i lavoratori con analoga professionalità e che venga aumentata l’aliquota previdenziale. Secondo il sindacato sarebbe, inoltre, necessaria l'obbligatorietà della rivalsa previdenziale per i lavoratori con partita IVA iscritti alla Gestione separata, il suo innalzamento dal 4% al 18% e l'introduzione di un costo aggiuntivo del 4%, a carico delle imprese, per l'utilizzo di lavoro parasubordinato, da destinare all’aggiornamento professionale e alla previdenza integrativa.
L'iniziativa si è chiusa con l'invito, da parte del NIdiL CGIL, rivolto a tutti i lavoratori parasubordinati, a recarsi presso i patronati INCA CGIL per verificare immediatamente la propria posizione contributiva, sottolineando che la mancata denuncia di irregolarità, oltre i cinque, anni comporta la perdita dei contributi, con inevitabili ricadute sull’entità della pensione. Questa mattina, diversi lavoratori precari, si sono dati appuntamento davanti alla sede INPS di Piazza Augusto Imperatore a Roma, per effettuare il calcolo delle loro future pensioni, con il risultato sconcertante di ritrovarsi, nella maggior parte dei casi, dopo 40 anni di contributi, con un assegno mensile che non supera i 500€. L'appuntamento è stato lanciato dalla CGIL, dopo la provocatoria dichiarazione del Presidente dell’INPS, Antonio Mastrapasqua, secondo il quale se l'ente previdenziale dovesse “dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale”. Una situazione verificata nelle cifre e nei volti preoccupati di chi, questa mattina, ottenuto l'estratto contributivo, si è recato al banchetto dell'INCA CGIL dove gli è stata prontamente calcolata la futura pensione. È così che Marta, collaboratrice a progetto di una associazione del terzo settore, ha scoperto che, se non cambieranno gli attuali coefficienti di calcolo e le aliquote contributive per i lavoratori parasubordinati, si ritroverà a 65 anni di età con una pensione pari al 40% delle sue ultime retribuzioni, che nel suo caso significa all’incirca 450 euro al mese. Un caso simile ai molti altri che, durante la mattinata, sono stati intervistati dagli inviati della CGILtv. Perché le pensioni dei lavoratori parasubordinati saranno così basse? Lo chiediamo ai dirigenti del NIdiL CGIL e dell'ufficio Politiche Giovanili della CGIL Nazionale, presenti all'iniziativa, che, al microfono della CGILtv, spiegano come una parte delle responsabilità deve essere attribuita alle basse retribuzioni dei precari, spesso non adeguate al lavoro svolto, ma anche che la questione non si esaurisce qui. Infatti, l'aliquota previdenziale per i parasubordinati è pari al 26%, a differenza dei dipendenti subordinati che versano il 33%, e, inoltre, i loro rapporti di lavoro sono per natura discontinui, e ciò pesa molto sulla contribuzione. Inoltre a gennaio il governo ha adottato i nuovi coefficienti penalizzanti di calcolo della pensione, senza istituire l’apposito tavolo con le organizzazioni sindacali: un tavolo, previsto dal protocollo sul welfare del 23 luglio 2007, che dovrebbe avere il compito di adeguare i coefficienti per assicurare pensioni dignitose a tutti. Una situazione nota al sindacato da tempo. Già dal 2009 NIdiL CGIL, con una petizione che ha raccolto 30.000 firme, ha chiesto che la pensione fosse pari almeno al 60% delle ultime retribuzioni, un requisito minimo per poter garantire pensioni dignitose ai lavoratori precari. NIdiL CGIL ha inoltre chiesto che i compensi dei lavoratori parasubordinati siano agganciati ai minimi dei contratti nazionali di riferimento per i lavoratori con analoga professionalità e che venga aumentata l’aliquota previdenziale. Secondo il sindacato sarebbe, inoltre, necessaria l'obbligatorietà della rivalsa previdenziale per i lavoratori con partita IVA iscritti alla Gestione separata, il suo innalzamento dal 4% al 18% e l'introduzione di un costo aggiuntivo del 4%, a carico delle imprese, per l'utilizzo di lavoro parasubordinato, da destinare all’aggiornamento professionale e alla previdenza integrativa. L'iniziativa si è chiusa con l'invito, da parte del NIdiL CGIL, rivolto a tutti i lavoratori parasubordinati, a recarsi presso i patronati INCA CGIL per verificare immediatamente la propria posizione contributiva, sottolineando che la mancata denuncia di irregolarità, oltre i cinque, anni comporta la perdita dei contributi, con inevitabili ricadute sull’entità della pensione.
Ruby: "Silvio mi mostrò l'Audi e disse: è per te"
Ora veniamo ai dettagli. La diciassettenne, ha molti amici in Liguria. Li ha soprattutto nel giro della "notte", nonostante il suo indirizzo fosse quello di una comunità per minori. I siti web si vanno riempiendo delle sue foto e delle sue performance in discoteca. E anche a Genova Ruby non è che sia stata molto riservata sull'immagine del premier e sulla sua vita milanese. Un mese fa venne fermata alla stazione di Brignole. Solita trafila che riguarda i minori, per di più è una ragazza, truccatissima, e con in tasca 5mila euro in contanti. Troppi, pensarono i poliziotti, per una che dovrebbe stare in comunità: che fai? Risposta: "Non pensate male, sono una modella, e faccio le sfilate per Lele Mora".
Torna sempre l'ombra di Lele, e non solo la sua. Nei verbali milanesi, Ruby aveva raccontato di aver ricevuto in regalo da Berlusconi un'auto. Ieri, ricostruendo le storie delle feste con "bunga bunga" ad Arcore e dei soldi, dei gioielli, dell'abito di Valentino, avevamo omesso di citare il modello dell'auto. Bene. Alle ragazze come lei, sistemate nella comunità di Sant'Ilario, sui colli della città, che cosa raccontava Ruby? "Voi non lo sapete, ma Berlusconi mi ha regalato anche un'Audi R 8". Le amiche di chiacchierata l'avevano presa per un'esagerazione, ma il modello corrisponde al verbale.
E nel verbale lei racconta che, nella seconda serata dell'invito ad Arcore, avviene questa scena. Arriviamo, io ed Emilio Fede, poi Silvio - dice - mi trattiene e nel giardino della villa mi mostra l'Audi e dice che è per me. "Portatemi questi verbali", dice lei ieri sera, in un comprensibile tentativo di sfida e di minimizzare, di proteggersi e forse di proteggere "persone che mi hanno aiutato senza chiedere niente in cambio". Che è una bella frase, anche onesta, ma in un contesto che è quello che è.
Ruby sa bene che l'emersione della "connection" (umana, e anche un po' grottesca) tra lei, scappata dalla casetta di Letojanni, e gli inviti con grande sfoggio di generosità da parte di Silvio Berlusconi, è cominciata (ed è anche "sparita") in questura. Era la notte tra il 27 e il 28 maggio. Cinque mesi fa. Che cos'è dunque successo tra il primo piano e lo stanzone dei fermati, quando Ruby, accusata di furto, senza documenti, incontra gli agenti? La moviola delle indagini s'è messa di nuovo in movimento. E si va avanti fotogramma per fotogramma. La "pratica Ruby", e cioè la storia burocratica della diciassettenne Karima (il suo vero nome), residente a Letojanni, figlia di un venditore ambulante e di una casalinga con la passione per lo spettacolo, formalmente è a posto. Non è che ci siano dei dilettanti allo sbaraglio. "Nessun privilegio o trattamento preferenziale per Ruby-Karima a seguito della telefonata della Presidenza del Consiglio", fanno sapere dalla stessa questura. Ma resiste quel gigantesco "ma" intorno alla sua liberazione notturna e alle telefonate tra "una voce" di Palazzo Chigi e l'ufficio di gabinetto. E riguarda Nicole Minetti, 25 anni, consigliere regionale Pdl per ordine di Berlusconi, con un curriculum che passa da show girl a "igienista dentale" all'ospedale San Raffaele.
Ora, è vero che Karima viene invitata dai poliziotti a parlare con i genitori in Sicilia e la telefonata è brusca: "Non ne vogliamo sapere più niente, scappa sempre, se sta a Milano tenetevela". È vero che il Tribunale dei minori viene allertato. È vero che non si trova a Milano una comunità disponibile e Ruby, molto probabilmente, con tutte le difficoltà del caso, resterà in una camera di sicurezza della questura. Ma è anche vero, verissimo, che è accusata di furto. Che ha precedenti specifici per furto. Ma sei ore dopo il suo ingresso in questura una funzionaria arriva nello stanzone del fotosegnalemento e blocca tutto. E chi prende in carico una "scappata di casa" spacciata da Palazzo Chigi per la nipote di un capo di Stato straniero? Nicole Minetti, invitata anche lei alle feste di Arcore. La Procura vuole vederci un po' più chiaro, anche se "a posteriori", nei modi e nei metodi di quella che resta la "consegna".
La polizia ci spia su Facebook
Negli Stati Uniti, tra mille polemiche, è allo studio un disegno di legge che, se sarà approvato dal Congresso, permetterà alle agenzie investigative federali di irrompere senza mandato nelle piattaforme tecnologiche tipo Facebook e acquisire tutti i loro dati riservati. In Italia, senza clamore, lo hanno già fatto. I dirigenti della Polizia postale due settimane fa si sono recati a Palo Alto, in California, e hanno strappato, primi in Europa, un patto di collaborazione che prevede la possibilità di attivare una serie infinita di controlli sulle pagine del social network senza dover presentare una richiesta della magistratura e attendere i tempi necessari per una rogatoria internazionale. Questo perché, spiegano alla Polizia Postale, la tempestività di intervento è fondamentale per reprimere certi reati che proprio per la velocità di diffusione su Internet evolvono in tempo reale.
Una corsia preferenziale, insomma, che potranno percorrere i detective digitali italiani impegnati soprattutto nella lotta alla pedopornografia, al phishing e alle truffe telematiche, ma anche per evitare inconvenienti ai personaggi pubblici i cui profili vengono creati a loro insaputa. Intenti forse condivisibili, ma che di fatto consegnano alle forze dell'ordine il passepartout per aprire le porte delle nostre case virtuali senza che sia necessaria l'autorizzazione di un pubblico ministero. In concreto, i 400 agenti della Direzione investigativa della Polizia postale e delle comunicazioni potranno sbirciare e registrare i quasi 17 milioni di profili italiani di Facebook.
Ma siamo certi che tutto ciò avverrà nel rispetto della nostra privacy? In realtà, ormai da un paio d'anni, gli sceriffi italiani cavalcano sulle praterie di bit. Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza e persino i vigili urbani scandagliano le comunità di Internet per ricavare informazioni sensibili, ricostruire la loro rete di relazioni, confermare o smentire alibi e incriminare gli autori di reati. Sempre più persone conducono in Rete una vita parallela e questo spiega perché alle indagini tradizionali da tempo si affianchino pedinamenti virtuali. Con la differenza che proprio per l'enorme potenzialità del Web e per la facilità con cui si viola riservatezza altrui è molto facile finire nel mirino dei cybercop: non è necessario macchiarsi di reati ma basta aver concesso l'amicizia a qualcuno che graviti in ambienti "interessanti" per le forze dell'ordine.
A Milano, per esempio, una sezione della Polizia locale voluta dal vicesindaco Riccardo De Corato sguinzaglia i suoi "ghisa" nei gruppi di writer, allo scopo di infiltrarsi nelle loro community e individuare le firme dei graffiti metropolitani per risalire agli autori e denunciarli per imbrattamento. Le bande di adolescenti cinesi che, tra Lombardia e Piemonte, terrorizzano i connazionali con le estorsioni, sono continuamente monitorate dagli interpreti della polizia che si insinuano in Qq, la più diffusa chat della comunità. Anche le gang sudamericane, protagoniste in passato di regolamenti di conti a Genova e Milano, vengono sorvegliate dalle forze dell'ordine. E le lavagne degli uffici delle Squadre mobili sono ricoperte di foto scaricate da Facebook, dove i capi delle pandillas che si fanno chiamare Latin King, Forever o Ms18 sono stati taggati insieme ad altri ragazzi sudamericani, permettendo così agli agenti di conoscere il loro organigramma.
Veri esperti nel monitoraggio del Web sono ormai gli investigatori delle Digos, che hanno smesso di farsi crescere la barba per gironzolare intorno ai centri sociali o di rasarsi i capelli per frequentare le curve degli stadi. Molto più semplice penetrare nei gruppi considerati a rischio con un clic del mouse. Quanto ai Carabinieri, ogni reparto operativo autorizza i propri militari, dal grado di maresciallo in su, ad accedere a qualunque sito Internet per indagini sotto copertura, soprattutto nel mondo dello spaccio tra giovanissimi che utilizzano le chat per fissare gli scambi di droga o ordinare le dosi da ricevere negli istituti scolastici. Mentre, per prevenire eventuali problemi durante i rave, alle compagnie dei Carabinieri di provincia è stato chiesto di iscriversi al sito di social networking Netlog, dove gli appassionati di musica tecno si danno appuntamento per i raduni convocando fans da tutta Europa. A caccia di raver ci sono anche i venti compartimenti della Polizia postale e delle comunicazioni, localizzati in tutti i capoluoghi di regione e 76 sezioni dislocate in provincia.
Incidenti lavoro: tre morti
In Costiera Amalfitana, nel Napoletano e vicino Bolzano
ROMA, 28 OTT - Tre morti sul lavoro oggi in Italia. Ad Atrani, in Costiera Amalfitana, un rocciatore di 41 anni e' precipitato da una trentina di metri mentre era effettuava lavori di bonifica ad un costone roccioso. Un uomo di 46 anni e' morto nel pomeriggio a Laives, a sud di Bolzano: era sul tetto di un capannone per la manutenzione, e' scivolato precipitando per cinque metri. E nel Napoletano, a Sant'Anastasia, ha perso la vita un operaio di 32 anni mentre stava caricando un escavatore su un carrello.
Epifani di nuovo all'attacco di Marchionne "In Germania l'avrebbero cacciato"
Il segretario della Cgil sull'ad del Lingotto: "I problemi si affrontano ai tavoli non in tv". Marcegaglia: "Il suo è stato un appello a risolvere questioni reali, non sia motivo di divisione politica"
ROMA - "In Germania lo avrebbero cacciato". Secco il giudizio del segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, che torna sulle dichiarazioni dell'ad della Fiat, Sergio Marchionne, che domenica ha definito l'Italia un peso per il Lingotto 1, parole condivise e criticate 2 da politici e sindacalisti. "Cosa sarebbe successo in Germania se l'amministratore delegato di un grande gruppo avesse parlato in tv e non davanti al suo comitato di sorveglianza? In Germania l'avrebbero cacciato" ha detto Epifani a Firenze nel suo discorso conclusivo dell'incontro organizzato dalla Fiom Cgil.
Epifani: "Problemi non si risolvono in tv". "Non so perché Marchionne è andato in tv - ha proseguito - e a chi parla, alle sue controparti naturali o ai cittadini? E se parla ai cittadini la vertenza Fiat si risolve più facilmente o più difficilmente? E la ricomposizione di un tavolo con la Fiom è più facile o più difficile dopo questa esposizione mediatica? Avete mai visto una vertenza che si fa in tv o sui giornali senza che ai tavoli preposti succeda qualcosa? E' questa assunzione di responsabilità? Ci si può limitare ad andare in tv? Si possono trattare così le organizzazioni sindacali?". "Quando Marchionne dice le cose che dice - ha osservato ancora Epifani parlando dell'intervento di Marchionne in tv - non dice il falso ma scambia le cause con gli effetti. Il problema non è l'orario di lavoro, il problema che la Fiat deve far crescere la qualità di quello che produce. Se ha 22 mila lavoratori in cassa integrazione non può pensare di avere degli utili, e se questi lavoratori sono in cig è perché sul mercato di oggi i suoi modelli non si vendono".
Marcegaglia: "Pone problemi veri". Il confronto su Fiat, anche dopo le parole di Marchionne, "non deve diventare motivo di scontro e di divisione politica". Ma "motivo per unire le forze, affrontare i problemi di produttività "di cui soffrono le imprese italiane", ha dichiarato la leader degli industriali, Emma Marcegaglia, a Napoli a margine dell'iniziativa "Orientagiovani". "Mi sembra che la cosa da dire è: Fiat, la famiglia, John Elkann, Marchionne, non hanno affatto detto che intendono lasciare l'Italia" sottolinea la presidente di Confindustria. "Se un imprenditore decide di lasciare e chiudere gli stabilimenti non va in televisione, li chiude e basta - ha aggiunto - mi è sembrato che l'appello di Marchionne sia un appello a guardare i problemi dell'Italia, i problemi di competitività e produttività, dei quali parliamo spesso e da molto tempo. Quindi mi è sembrato più un appello a cercare di risolvere i problemi italiani, che sono effettivi". Problemi "veri". Il gap per le imprese italiane "è un dato tecnico e non riguarda solo la Fiat ma tutte le aziende".
Cgia Mestre, 7,6 miliardi di aiuti statali in 30 anni. Negli ultimi 30 anni la Fiat ha ricevuto aiuti di Stato per oltre 7,6 miliardi di euro: la Cgia di Mestre ha fatto i conti in tasca alla casa automobilistica torinese e alla luce di questi dati il segretario degli artigiani e dei piccoli imprenditori di Mestre giudica "ingenerose" le recenti dichiarazioni dell'ad Sergio Marchionne. "Sono poco più di 7,6 mld di euro i finanziamenti che lo Stato italiano ha erogato alla Fiat tra il 1977 e il 2009. Una cifra importante che ha toccato la dimensione economica più rilevante negli anni 80, sottolinea la Cgia
Fini, il terremoto è in arrivo
In un firmamento di stelle fisse quella di Gianfranco Fini si sarebbe spenta presto. Il suo muoversi con una pattuglia di fedelissimi contro l'invincibile armada del Cavaliere avrebbe portato alla dispersione di un capitale politico accumulato nei decenni. Ma la situazione non è più quella degli anni 2000. Tutto sta cambiando e il potere berlusconiano non ha più la presa ferrea di un tempo. Intendiamoci: Silvio Berlusconi dispone sempre di risorse incommensurabilmente superiori ad ogni altro attore politico, e sa utilizzarle con la massima spregiudicatezza - e il presidente della Camera se n'è accorto, quest' estate.
Tuttavia il pack siberiano prodotto dalla glaciazione berlusconiana comincia a sciogliersi: capi e capetti pidiellini si stanno posizionando all'interno del partito per prepararsi al dopo-Pdl e, inevitabilmente, finiscono per litigare ancora prima di disporre delle spoglie. Anche oltre il recinto del centrodestra c'è movimento. Da Rutelli a Montezemolo, da Casini agli ex popolari malpancisti del Pd, fino ai residui della sinistra radicale, è tutto un vorticare di incontri e progetti. Insomma, lo scenario prefiguratosi all'indomani delle elezioni del 2008, imperniato su due gradi partiti e qualche piccolo comprimario, è andato in fumo.
Il vero motore propulsivo di questa fase, per la portata sistemica della sua azione più che per primogenitura, rimanda a Gianfranco Fini. Con mosse felpate, ma accompagnate da una serie continua di punture di spillo volte sempre a differenziarsi dal Cavaliere, il presidente della Camera si è avvicinato quasi in souplesse allo scontro finale con Berlusconi. Il redde rationem si è consumato il 22 aprile scorso, nell'insolita sede della direzione del Pdl.
In quella sceneggiata da congresso pannelliano, dove i due leader litigano in diretta sciorinando le loro incompatibilità di fronte alla platea televisiva, non solo si consuma la rottura per lesa maestà ma si assiste ad un "salto di specie" per quanto riguarda Gianfranco Fini. Per la prima volta egli abbandona l'eloquio trattenuto e presidenzialista, e si proietta metaforicamente e fisicamente al centro dell'arena, pronto al conflitto gladiatorio, sub specie di rissa verbale.
Quella scena marca un punto di non ritorno nei rapporti tra i due dioscuri del Pdl, e persino nella loro immagine pubblica. Il Fini imbalsamato nello scranno più alto di Montecitorio diventa un politico di lotta e di governo; inizia l'alternanza tra l'aplomb da statista in formazione e in accreditamento internazionale, e la retorica da capo-partito, pur senza abbandonare giacca e cravatta.
Lo slalom tra i due ruoli si presenta insidioso, perché il fondatore di Futuro e Libertà non può rinunciare del tutto alla sua immagine di leader affidabile e conciliante coltivata negli ultimi 15 anni e diventata uno dei suoi segni caratterizzanti , oltre che fonte primaria del suo apprezzamento trasversale. Allo stesso tempo, per raccogliere intorno a sé consensi che si identifichino con il suo progetto è costretto a "innalzare il livello dello scontro". È evidente la contraddizione tra i due piani: conservare una allure presidenziale e battagliare quotidianamente con gli avversari richiede doti di alto equilibrismo. Non solo.
Vi è una ulteriore difficoltà da superare: si tratta di tradurre i consensi personali del presidente della Camera alla sua formazione politica. È un passaggio cruciale che Fini conosce bene fin da quando guidava Alleanza nazionale: allora, a un riconoscimento di amplissime proporzioni alla sua persona non corrispondeva che un 12-15 per cento di voti al partito. Ora, per evitare che l'apprezzamento generalizzato del leader si disperda in questo "trasferimento" è necessario fornire al nuovo soggetto politico una identità precisa e facilmente riconoscibile.
Qual è l'identità della galassia finiana (Fare Futuro, Generazione Italia, Il Secolo d'Italia, Futuro e Libertà)? Da quanto si legge nei loro siti ancora più che nelle dichiarazioni dei leader politici emerge una forte contrapposizione al mondo forzaleghista in generale, e al presidente del Consiglio in particolare. Sono così insistenti e così feroci le critiche al centrodestra che si fatica a collocare ancora questa galassia nell'orbita governativa. La separazione dei rispettivi percorsi si percepisce sia dai diversi riferimenti politico-ideali che da valutazioni sempre difformi sulle singole questioni.
La sfida di Landini per cambiare la Cgil
“Sei stato bravo, tranne per quella frase finale…”. L’elogio critico sussurrato dal numero uno della Cgil Guglielmo Epifani al segretario generale della Fiom, Maurizio Landini - al termine del comizio di piazza San Giovanni, culminato sabato scorso nella richiesta di sciopero generale – fotografa perfettamente il momento particolare del maggiore sindacato italiano.
Alla vigilia dell’insediamento al vertice di Susanna Camusso molti osservatori, colpiti dall’efficacia di Landini, e dal colpo a effetto con cui ha costretto la Cgil a dire sì allo sciopero generale, si chiedono se non siamo di fronte a un rovesciamento del quadro: la Fiom che esce dall’angolo dell’estremismo storicamente residuale e impone la linea ai fratelli maggiori.
Landini non aggira l’ostacolo: “Noi non ci muoviamo mai pensando solo ai metalmeccanici ma con un pensiero generale che per sua natura è confederale. La Cgil ovviamente può cambiare, noi ci battiamo perché cambi anche perché abbiamo assolutamente bisogno di cambiare”. Con tutto ciò la scommessa del quarantanovenne saldatore di Reggio Emilia è chiara: deve imporre il suo linguaggio tutto sindacale a un’organizzazione abituata alla tradizione tutta politica di padri nobili come il predecessore Gianni Rinaldini (suo concittadino e “fratello maggiore”) e Giorgio Cremaschi.
Chi lo conosce bene sa che il consenso che conta, per Landini, è quello della “sua” organizzazione, del sindacato di cui è figlio e debitore. Non solo perché nella Fiom c’è cresciuto, da quando si iscrisse all’età di 15 anni, quando ha cominciato a fare il saldatore. Ma anche perché il lavoro fin dall’adolescenza e le scuole superiori saltate lo rendono diverso da gran parte del ceto politico e sindacale. Un autodidatta che si identifica totalmente nella dimensione sindacale. “La storia del partito Fiom non esiste”, spiega convinto, “è una sciocchezza che nasconde il vero problema: come fa la sinistra a rappresentare il lavoro? Noi non ci sostituiamo alla politica”.La forza del comizio di piazza San Giovanni, se lo si ripercorre fino in fondo, non sta in abili trovate retoriche ma nella solidità degli argomenti, nella linearità dell’analisi. E soprattutto nella certezza di stare sul palco a rappresentare un’organizzazione forte, articolata sul territorio, ancora ben organizzata a differenza di altre realtà sindacali in declino. In un mondo politico zeppo di leader senza popolo o sopra il popolo, Landini è “l’espressione coerente dell’organizzazione”. E quando ha detto nel discorso conclusivo: “Se siamo qui non è nemmeno merito della sola Fiom ma degli operai di Pomigliano che hanno avuto la forza di dire no”, più che la battuta retorica ha cercato di rivendicare l’autentico radicamento della sua organizzazione.
A differenza dei predecessori Claudio Sabattini e Rinaldini, Landini è anche figlio di un sindacato che negli ultimi vent’anni ha conosciuto solo sconfitte e quasi mai vittorie, costretto a resistere e fare i conti con la spoliticizzazione che si è riversata anche nel sindacato. Con lui la Fiom deve fare i conti con la scomparsa della sinistra e con le disillusioni di un’epoca. Per questo fa presa sul popolo Fiom la sua voglia di ripartire proprio dal sindacato per ricostruire l’identità operaia e del lavoro, e per tentare la strada delle trasformazioni sociali. Per un’impresa del genere puoi affidarti o all’arte della politica-spettacolo oppure alla solidità dei tuoi rapporti interni. La strada scelta da Landini è la seconda. Lui scommette su questa organizzazione un po’ speciale che è la Fiom, un po’ squadra, un po’ famiglia, collettivo politico e umano tenuto insieme dalla figura un po’ mitizzata dell’operaio metalmeccanico.
Per questo sabato scorso si è fatto il giro dei due cortei in modo meticoloso, cercando di incontrare tutti, abbracciare tutti, e ricordare di essere uno di loro, uno della Fiom, un operaio che fa provvisoriamente il segretario generale. Per questo quando c’è un problema parte da Roma e va a farsi vedere dove serve: a Melfi, per i licenziamenti in Fiat, a Pomigliano, per la vertenza con Sergio Marchionne, a Torino, alla Fincantieri. Ieri era all’Università a parlare agli studenti, che lo hanno accolto come un eroe. Con i media invece è attento a non esagerare, e si concede la metà di quanto sarebbe richiesto. Non è per timidezza, ma per non farsi trascinare dalle bolle mediatiche, che alla lunga possono fare molto male. “Stiamo con i piedi per terra”, ripete ai suoi quando qualcuno lo riconosce per strada e gli grida “bravo Landini”.
E poi c’è l’orgoglio operaio. Landini è stato sempre dalla Fiom, non ha fatto il giro delle organizzazioni, non ha diretto pezzi di Cgil, sempre e solo la Fiom. Ma alla Cgil ci tiene. Quando si è messo accanto a Epifani, sul palco di San Giovanni, di fronte ai fischi della piazza e alle richieste di sciopero generale, non l’ha fatto per una semplice cortesia, ma per ricordare a tutti che quello che parlava era comunque anche il suo segretario generale. E molti di quelli che hanno visto le immagini, in piazza o in video, si saranno chiesti se non si stia preparando un futuro in cui il più grande sindacato italiano possa cercare il suo leader proprio tra gli “estremisti” della Fiom.
FIAT: Epifani, la verità è che Marchionne vorrebbe andarsene dall'Italia
Marchionne “scarica le colpe sugli operai” e la verità è che "vorrebbe andarsene dall'Italia”, questo il duro commento del Segretario Generale della CGIL, Guglielmo Epifani, riguardo alle affermazioni fatte dall'amministratore delegato della FIAT, sulla produttività degli impianti italiani, nel corso di una trasmissione televisiva: “FIAT potrebbe fare di più se potesse tagliare l'Italia” ha detto Marchionne.
Secondo Epifani, quando l'amministratore delegato sostiene di non avere più debiti con il nostro Paese “è come se si sentisse obbligato a stare qui da noi, mentre il gruppo è sempre più americano, forte in Brasile e negli Stati Uniti”. Certo è che, per il leader della CGIL, è impensabile che possano provenire utili dagli stabilimenti italiani se “sono praticamente fermi”. “Si fa Cassa integrazione dappertutto” spiega Epifani e ciò perchè “il mercato europeo non va bene, in particolare per i marchi FIAT” infatti “sulle fasce medio alte, quelle che fanno guadagnare – prosegue il dirigente sindacale -, la FIAT è praticamente assente, e su quelle medio piccole la concorrenza è agguerritissima. Non ci sono i modelli: questa è la realtà” dice Epifani.
Lo scetticismo di Marchionne sul futuro della FIAT in Italia, secondo Epifani era “evidente già da tempo” e molti sono stati i segnali che lo hanno dimostrato: dalla decisione dell'azienda di chiudere lo stabilimento siciliano di Termini Imerese e l'ipotesi “per molto tempo in ballo” di chiudere anche Pomigliano d'Arco, al fatto che a Mirafiori non sono arrivati nuovi modelli mentre a Torino continua ad esserci un problema di sovraccapacità produttiva.
Epifani conclude con una domanda: “davvero si può pensare che tutto dipenda da un turno in più o in meno?” e lancia una proposta: "una commissione neutrale”, anche istituita dal Parlamento, “per verificare se sui turni ha ragione la FIAT oppure gli operai che dicono di non farcela”. La verità, dice Epifani, è che “allo stato non c'è un progetto industriale per l'Italia”.
Quali storie racconta Marchionne? |
Ospite del salottino VIP di Fabio Fazio alla RAI, Sergio Marchionne ha pontificato sulla Fiat e gli operai, ha ironizzato sui sindacati anche quelli “buoni”, ha detto che l’Italia è un peso per la Fiat ma non ha sciolto le riserve sugli investimenti promessi, sui famosi 20 miliardi di euro che Fabbrica Italia dovrebbe spendere entro il 2014. Sono passati quasi sei mesi da quando Sergio Marchionne annunciò a Torino il lancio dell’ambizioso progetto “Fabbrica Italia”. Un piano che prevedeva, entro il 2014, la realizzazione di investimenti per 20 miliardi di euro in Italia, il raddoppio della produzione nazionale da 650mila a 1,4 milioni di vetture, 10 nuovi modelli e il restyling |
Da oggi, i capi d'istituto dovranno stare attenti a esprimere la propria opinione in pubblico o sui media. Se infatti le loro dichiarazioni dovessero essere considerate lesive dell'immagine dell'amministrazione potrebbe scattare la "sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni fino a un massimo di tre mesi". Il codice Brunetta ("Comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni"), recepito anche per i presidi, non ammette dichiarazioni pubbliche che vadano a "detrimento dell'immagine della pubblica amministrazione".
A maggio di quest'anno, il direttore dell'Ufficio scolastico regionale, Marcello Limina, aveva avvertito insegnanti e presidi: meglio "astenersi da dichiarazioni o enunciazioni che in qualche modo potessero ledere l'immagine dell'amministrazione pubblica e rapportarsi con i loro superiori gerarchici nella gestione delle relazioni con la stampa". Insomma: niente interviste tranchant su giornali e in tv. Ed era scoppiato il finimondo, con l'opposizione che ha chiesto di rimuovere Limina e la maggioranza che lo ha difeso.
Criticare pubblicamente la riforma Gelmini è da considerarsi "lesivo dell'immagine della pubblica amministrazione" o semplice manifestazione "della libertà di pensiero"? "A deciderlo - spiega Gianni Carlini, coordinatore dei dirigenti scolastici della Flc Cgil - è chi irroga la sanzione: cioè, il direttore dell'Ufficio scolastico regionale". Da quando è stato sottoscritto il Codice di comportamento "i presidi sono più prudenti", ammette Carlini. E da allora non mancano richieste di chiarimento, da parte del ministero dell'Istruzione o da parte del servizio ispettivo del ministero della Funzione pubblica, ai capi d'istituto per i motivi più disparati.
In un caso il preside è stato chiamato in causa da un genitore per non avere pubblicato retribuzione e curriculum sul sito della scuola. Per poi chiarire che la pubblicazione dei documenti in questione deve essere effettuata sul sito del ministero dell'Istruzione e non sul sito della scuola. In un'altra circostanza, il dirigente scolastico al quale era stata richiesta un'intervista ha comunicato il tutto al proprio superiore. E per tutta risposta il direttore dell'Ufficio scolastico regionale gli ha rammentato i vincoli cui è sottoposto il capo d'istituto: non denigrare la pubblica amministrazione.
La firma del contratto di lavoro dei dirigenti scolastici per il quadriennio 2006/2009, che al suo interno contiene le norme di comportamento e le relative sanzioni, è avvenuta lo scorso mese di luglio, ma non era ancora stato pubblicato. Probabilmente, non tutti i capi d'istituto sono a conoscenza del fatto che una semplice intervista ad un giornale o ad una tv può metterli nei guai. L'articolo 16, comma 7, del contratto dei capi d'istituto stabilisce infatti "la sospensione dal servizio con privazione della retribuzione da un minimo di tre giorni fino ad un massimo di tre mesi" nei casi previsti dall'articolo 55-sexies, comma 1, del decreto legislativo 165/2001 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).
Il quale rinvia al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici che all'articolo 11 recita: "salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali e dei cittadini, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche che vadano a detrimento dell'immagine dell'amministrazione. Il dipendente tiene informato il dirigente dell'ufficio dei propri rapporti con gli organi di stampa". Il manuale di comportamento dei presidi regola tantissime fattispecie di irregolarità e comportamenti dubbi. E per la prima volta nella scuola introduce le sanzioni pecuniarie. "Da un minimo di 150 ad un massimo di 350 euro per i dirigenti scolastici che dovessero prodursi in "alterchi negli ambienti di lavoro, anche con utenti o terzi" o che non rendessero "conoscibile il proprio nominativo mediante l'uso di cartellini identificativi o di targhe da apporre presso la postazione di lavoro". Il Codice di comportamento stabilisce anche le sanzioni per ruberie, collusioni con insegnanti assenteisti e apertura di procedimenti penali a carico dei dirigenti scolastici. E a far capire che da quest'anno non si tollerano più comportamenti scorretti e ambigui interviene un recente decreto del ministro Gelmini, che allarga il raggio d'azione degli ispettori ministeriali: consente loro di controllare le scuole anche senza incarico da parte del direttore regionale. A sorpresa.
Siamo in calo? Al contrario: luglio 2010, 64.883 copie (abbonamenti esclusi), agosto 70.541, settembre 72.050. Chi ci mantiene? I lettori. Nei primi nove mesi 2010 abbiamo ricavato 21.186.140 euro tra vendite e abbonamenti e solo 418 mila euro di pubblicità. Contributi per l’editoria dalla Presidenza del Consiglio: zero. Dipendenti: 35 giornalisti e 5 non giornalisti. Vediamo ora Libero. Nella relazione al bilancio al 31 dicembre 2009, approvato dall’assemblea dei soci alla presenza del consigliere Belpietro, si ammette “la riduzione di 33 mila copie al giorno”. E si legge: vendite di settembre 2009, 78.406 copie (contro le 109 mila del luglio 2009, ultimo mese di Feltri); ottobre: 75.838 copie; novembre 71.032; dicembre 70.612. Nell’ottobre 2006 Feltri ne vendeva 153.991. Tre anni dopo, Belpietro è precipitato a meno della metà: 75.838. Da agosto 2009 a luglio 2010 Libero ha “tirato” (cioè stampato) – sempre secondo i dati Ads – 189.671 copie medie. Ma le rese, cioè le copie invendute che tornano indietro dalle edicole, sono una montagna: 82.488 copie. I contributi governativi infatti premiano gli spendaccioni, essendo basati sulle tirature lorde: più stampi, più spendi, più incassi e più distruggi carta al macero.
Filippo Facci attribuisce generosamente a Libero 100 mila copie, cioè la differenza fra tiratura e rese: 102.182 dall’estate 2009 a quella 2010. Ma quelle non sono le copie vendute in edicola (91.172), bensì quelle genericamente “diffuse”. Il dato include le copie cedute in blocco fuori edicola, a chissà chi (magari gli ospedali dell’editore Angelucci, enti, alberghi, treni) e chissà con quali sconti. Quelle vendute fuori edicola sono 17.841, di cui 14.185 “in blocco”. Il dato di Libero paragonabile al nostro di settembre 2010 (72.050 in edicola più 40 mila abbonati: 112 mila copie “vere”) è la misera cifra di 73.334 che l’Ads classifica come “vendita canali previsti dalla legge”.
Come si mantiene, allora, Libero? Grazie al contributo governativo: l’ultimo noto, nel 2008, era di 7,2 milioni di euro. E grazie alla pubblicità raccolta dalla concessionaria Visibilia dell’on. Daniela Santanchè (che ha appena lasciato il campo alla Publikompass, gruppo Fiat): 10,8 milioni. A Concita De Gregorio, direttore de L’Unità, che lamentava la distorsione del mercato pubblicitario che premia la concessionaria di Libero, Facci ha risposto sventolando le dure leggi del mercato: “L’Unità vende 42 mila copie, Libero supera le 100 mila: basterebbe questo a chiudere il discorso”.
In realtà ne apre due, di discorsi: quello delle copie e quello della pubblicità graziosamente concessa agli amici del governo da società statali, parastatali, concessionarie pubbliche, ministeri, aziende autonome ecc. Dal bilancio di Libero 2009 risulta che la raccolta pubblicitaria (10,8 milioni) è cresciuta del 26,5% (+2,3 milioni sul 2008), in un mercato dei quotidiani che flette del 18,6% (dato Nielsen) e a fronte di un crollo di copie vendute (per mascherarlo, il bilancio 2009 di Libero non riporta più i ricavi da vendita).
Morale della favola: il Fatto vende 40 mila copie più di Libero e chiude il suo bilancio in largo attivo senza un euro di fondi pubblici e con appena 400 mila euro di pubblicità. Libero vende 40 mila copie in meno e sta in piedi, con un organico più del doppio del nostro (98 dipendenti contro 40), grazie ai 10 milioni di pubblicità e ai 7 di fondi pubblici. Con quei soldi in più, noi potremmo creare un altro Fatto e assumere altri 100 giornalisti. Ma preferiamo restare così: piccoli e liberi.
Licenziati i neri che non fanno gli schiavi: eritrei scioperano e la cooperativa li caccia
Sedici eritrei lavorano come schiavi. Scioperano. E vengono licenziati. È successo ai lavoratori della cooperativa Papavero, impiegati nel carico e scarico delle merci presso la Gls di Cerro al Lambro (Milano). La Fiat è un simbolo, fa scuola e politica. Ma ciò che avviene a Melfi è solo la punta dell'iceberg. Nel mondo del lavoro in subappalto, specialmente se riguarda stranieri, i diritti sono già spariti da un pezzo. E se qualcuno si azzarda a pretendere ciò che gli è dovuto viene semplicemente cacciato.
Merki ha 45 anni. È scappato dall'Eritrea ed è arrivato in Italia come rifugiato politico sette anni fa. Vive con la moglie e due figli piccoli. Da cinque anni lavora alla Gls, una grossa azienda di logistica di proprietà delle poste inglesi. La Gls si occupa di ogni tipo di spedizione, anche delle casse da morto. Merki però non è un suo dipendente. Ha lavorato sempre nello stesso posto, ma per tre padroni diversi, tre cooperative che nel corso degli anni hanno gestito la manodopera, circa 90 persone tutte straniere. L'ultimo datore di lavoro è la cooperativa Papavero, il cui responsabile è un ex sindacalista Rdb. «Il nostro - racconta Merki è un lavoro pesante. Sgobbiamo per tante ore di fila, anche di notte per circa 1.100 euro al mese, a volte anche qualcosa di più. Ma noi vogliamo i nostri diritti». Per questo insieme ai suoi colleghi, tutti eritrei, seguiti dai SinCobas, Merki lo scorso febbraio ha scioperato quattro volte. I lavoratori della Papavero chiedevano cose elementari: straordinari pagati, tredicesima e quattordicesima, carichi di lavoro sopportabili, un contratto e regole chiare, sicurezza sul lavoro, il corretto pagamento delle imposte e dei contributi da parte del datore di lavoro. Durante gli scioperi hanno tentato di fare un presidio davanti alla Gls, ma ogni volta sono stati fermati da decine di poliziotti in tenuta antisommossa che in un paio di occasioni hanno caricato i manifestanti a colpi di manganello. «Le forze dell'ordine - racconta Aldo Milani del SinCobas - hanno vigilato i cancelli dell'azienda per 40 giorni. Neanche fossero amici di Maroni. Abbiamo dovuto lasciare il presidio. Ma non abbiamo smesso di seguire la vicenda di queste persone». La vertenza è continuata e i lavoratori non hanno smesso di denunciare la loro situazione e di chiedere il rispetto dei loro diritti.Due settimana fa, la doccia fredda. La cooperativa Papavero li ha messi alla porta mentre loro erano in ferie. Licenziati per avere scioperato. Secondo i loro «padroncini» si sarebbe trattato di scioperi illegali e senza preavviso che hanno messo in cattiva luce la ditta presso cui lavoravano. L'altra sera i lavoratori si sono presentati alla Gls per chiedere il reintegro sul posto di lavoro. Sono arrivate 4 auto dei carabinieri e dopo poco hanno lasciato l'azienda. Ieri però sono andati all'ispettorato del lavoro per denunciare ancora una volta la loro vicenda e per chiedere che vengano pagati gli arretrati, anche quelli che aspettano da anni dalle cooperative precedenti che li avevano impiegati. «Noi vogliamo diritti - spiega ancora Merki - non siamo schiavi. Ma adesso dovrò cercare un altro lavoro».La storia di questi eritrei non è un caso isolato. È un misto di razzismo e sfruttamento del lavoro molto comune, specie nelle aziende di logistica lombarde che ricorrono a cooperative per scaricare rischi, tasse e costi della manodopera. Un giro che spesso non viene adeguatamente denunciato dai sindacati maggiori. «Siamo abituati a trovarci di fronte a storie di intermediazione illegittima di manodopera, sono rapporti di lavoro fittizi - racconta Fulvio del SinCobas- abbiamo trovato aziende dove il 50% dei lavoratori, tutti stranieri, è in nero, oppure dove si trattano materiali tossici senza alcun rispetto delle norme di sicurezza».
A proposito di sicurezza, a Milano in questi giorni non si parla d'altro, e ancora una volta nel mirino ci sono gli stranieri equiparati a delinquenti etnici. Sulla loro testa il vicesindaco De Corato (Pdl) e la Lega fanno a gara la spara più grossa. Su questo si stanno già giocando la campagna elettorale per le comunali di primavera....Riflettete
Sono stati pubblicati i risultati di un recente sondaggio rivolto ai governi di tutto il mondo.
La domanda era: "Dite onestamente qual'è la vostra opinione sulla scarsità degli alimenti nel resto del mondo."
Gli europei non hanno capito cosa fosse la scarsità.
Gli africani non sapevano cosa fossero gli alimenti.
Gli americani hanno chiesto il significato di "resto del mondo".
I cinesi hanno chiesto delucidazioni sul significato di "opinione".
I politici italiani stanno ancora discutendo su cosa possa significare l'avverbio "onestamente".
"Noi, operai arrabbiati ma pacifici tra tagli e redditi ridotti a metà
Vinta la sfida numerica con Cisl e Uil. L'ultimo comizio da leader di Epifani. C'è anche una proposta per uscire dall'angolo: un unico contratto per i lavoratori auto
Alla vigilia ci avrebbero messo la firma. Una manifestazione senza incidenti che ha finito per migliorare il rapporto tra il popolo dei metalmeccanici e quello delle altre categorie della Cgil, la Fiom e corso d'Italia più vicini nonostante "una lunga dialettica", come ricorda Guglielmo Epifani.
Nella giornata l'unico attimo di tensione è il tentativo, presto abortito, di un gruppetto di cinquanta militanti dei giovani comunisti e altre sigle minori di contestare ancora una volta Epifani sotto il palco. Ma l'unico vero neo del pomeriggio sono stati gli insulti pesanti, gli sberleffi e gli slogan contro il segretario della Cisl ("Abbiamo un sogno nel cuore, Bonanni sul trattore"). Questo, del resto, passa il convento dell'unità sindacale quando, come denuncia Giovanni Barozzino guidando lo striscione dei licenziati di Melfi, "c'è anche chi gioisce perché la Fiat non ci ha reintegrati sul posto di lavoro".
Sotto i platani di viale Aventino come sotto gli ippocastani di via Merulana, i due cortei avanzano senza intoppi, protetti da un folto servizio d'ordine, primo, evidente, frutto, della collaborazione da tra Cgil e Fiom. I rischi maggiori possono venire dal corteo di piazza della Repubblica, che infatti si mette in moto dopo per poter giungere di fronte al palco quando la piazza è già riempita dai metalmeccanici partiti da Ostiense. Una precauzione che si rivelerà per fortuna inutile. Gli striscioni portano i nomi della crisi economica italiana: dalla Fiat alla Omsa passando per i portuali di Genova e il distretto metalmeccanico bolognese. Fabbriche in ristrutturazione e aziende che sopravvivono con la cassa integrazione che dimezza i redditi. Più che dalle contrapposizioni tra sindacati è in quella crisi che si alimenta la rabbia dei metalmeccanici che sfilano per le strade di Roma. Christian arriva da Torino: "Non mi spaventa il fatto che i sindacati abbiano punti di vista diversi. Vorrei però avere voce in capitolo in caso di accordi separati. Non mi piace che tutto passi sopra la mia testa".
Il nodo della democrazia sindacale è uno dei punti di divisione tra Cgil, Cisl e Uil. Ed è una delle battaglie comuni di Cgil e Fiom, come quella sulla difesa dei diritti in fabbrica. Dal palco di piazza San Giovanni Landini ed Epifani chiedono "regole certe, una legge per stabilire che un accordo è valido quando ha l'assenso della maggioranza dei lavoratori interessati. Non si fanno i referendum solo quando si è sicuri di vincerli". Landini propone "un contratto unico per tutti gli addetti dell'industria" e "lo sciopero generale" a difesa dei contratti nazionali di lavoro. Epifani concede lo sciopero generale "se dopo la manifestazione del 27 novembre non avremo ottenuto risposta", una formula che ricalca l'ordine del giorno dell'ultimo direttivo della Cgil. Poi ricorda agli assaltatori delle sedi Cisl che "una sede sindacale non appartiene ai segretari generali ma ai tanti lavoratori che con sacrificio hanno difeso le lotte di quel sindacato".
Sotto il palco, mentre si spengono gli ultimi echi del comizio, si prova a tirare le fila della giornata. La Fiom, anche grazie alla presenza delle altre categorie della Cgil e di nutrite rappresentanze dei partiti del centrosinistra, ha certamente vinto il confronto numerico con Cisl e Uil che avevano manifestato il 9 ottobre in piazza del Popolo. E ha dimostrato di poter mobilitare una vasta parte del centrosinistra, da Di Pietro a Vendola, a parti consistenti del Pd fino a Rifondazione. Forse il collante più potente dopo l'antiberlusconismo. Ma come utilizzare questa forza? Problema che dovranno risolvere insieme Maurizio Landini e Susanna Camusso, destinata nelle prossime settimane a succedere a Epifani.
Ognuno per la sua parte, naturalmente. Landini e il gruppo dirigente della Fiom provando a uscire dall'angolo nella trattativa con Fiat e Federmeccanica. Un primo tentativo lo compie il nuovo responsabile auto della Fiom: "Non sarebbe uno scandalo - dice Giorgio Airaudo - pensare a un unico contratto per tutti i lavoratori dell'auto. Se Confindustria è disposta ad accettare che non sia sostitutivo del contratto nazionale ma di quelli aziendali, possiamo parlarne".
A Camusso toccherà invece raccogliere l'eredità di Epifani che ieri sera le ha consegnato una piazza unita nonostante le storiche distanze tra i gruppi dirigenti dei metalmeccanici e della confederazione: "In questi anni abbiamo avuto momenti di scontro e di dialettica - ha detto un commosso segretario della Cgil alla piazza dei metalmeccanici - ma questo dimostra che il pluralismo è la vera forza della nostra organizzazione. È per me un grande onore chiudere il mio mandato in questa piazza. Abbiamo bisogno di tenere unita la Cgil".
se fosse successo in italia............
Se fosse successo in una miniera italiana, le cose sarebbero andate così: I° giorno: tutti uniti per salvare i minatori, diretta tv 24h, Bertolaso sul posto II giorno: da Brunovespa plastico della miniera, con barbara palombelli, belen e Lele Mora. III giorno:prime... difficoltà, ricerca dei colpevoli e delle responsabilità:... BERLUSCONI: colpa dei comunisti; DI PIETRO: colpa del conflitto d'interessi;BERSANI: ...ma cosa ...è successo?? BOSSI: sono tutti terroni, lasciateli la' CAPEZZONE: non è una tragedia è una grande opportunità ed è merito di questo governo e di questo premier FINI: mio cognato non c'entra.
IV giorno: TOTTI: dedicherò un gol a tutti i minatori. V giorno IL PAPA: faciamo prekiera a i minatori ke in qvesti ciorni zono vicini al tiavolo!!VII giorno: cala l'audience, una finestra in Chi l'ha visto e da Barbara d'urso che intervista i figli dei minatori: "dimmi, ti manca papà?'" dall'ottavo al trentesimo giorno falliscono tutti i tentativi di Bertolaso, che viene nominato così capo mondiale della protezione civile. Dopo un mese, i minatori escono per fatti loro dalla miniera, scavando con le mani. Un anno dopo, i 33 minatori, già licenziati,i vengono incriminati per danneggiamento del sito minerario. Ma è successo in Cile.... ci siamo salvati!!!
Da qui a prevedere «incidenti» il passo è men che breve. Il problema è che Maroni non è un opinionista qualsiasi, ma - ahinoi - il ministro dell'interno. L'uomo che, come ricorda Maurizio Landini, segretario generale della Fiom, ha il compito di «garantire la sicurezza e l'ordine pubblico nel Paese». E se «il ministro e i servizi parlano di possibili infiltrazioni di gruppi stranieri che, com'è noto, non sono metalmeccanici né tantomeno sono stati invitati al corteo», questo è ancor più vero. Se è così ben informato sulla provenienza degli «infiltrandi», ha tutti gli strumenti per fermarli prima. Magari un po' meglio di come ha brillantemente fatto con i fascisti serbi martedì sera.
Che città era? Ah, sì, Genova. Ecco, questo ci preoccupa molto. Noi non dimentichiamo che questo governo è lo stesso che occupava palazzo Chigi anche nel 2001. Allora qualche provocatore prezzolato era stato attivato per spedire pacchi esplosivi; qualche poliziotto s'era improvvisato «black block». Oggi c'è la crisi, e devono aver tagliato anche in quelle voci di spesa. Dal lato dell'opposizione sociale, tra frizzi e lazzi, non si è andati oltre qualche uovo. Roba da far ridere anche la questura di S. Marino. Ma la nostra classe dirigente - tutta - si è arrangiata anche con così poco per vaneggiare di «clima che non si vedeva dagli anni '50».
Conosciamo bene il gioco del «lancio dell'allarme» per coprire le ragioni di una protesta popolare. È un gioco che riesce sempre meno anche dalle parti della Lega, se è vero - com'è vero - che proprio Maroni è stato contestato alla «Berghem Fest», dalla curva atalantina allevata dall'amico Calderoli. Questo governo sa di doversene andare, e presto. Un gesto violento, a questo punto, può arrivare solo dalla sua disperazione. E infatti sembra proprio che lo minacci.
L'assessore regionale Finozzi (Lega Nord) indagato per truffa
VICENZA – L’assessore regionale al Turismo Marino Finozzi (Lega Nord) è stato indagato dalla procura di Vicenza in concorso con altri due imprenditori per il reato di truffa. Secondo l’ipotesi d’accusa, ancora tutta da dimostrare e nata da un esposto presentato di recente, l’esponente vicentino della Lega e i suoi soci non avrebbero onorato un debito contratto nell’ambito dell’attività imprenditoriale. Quando però è scattato il pignoramento, la sede della società, nell’Alto Vicentino, era sparita. Questo almeno secondo la versione del denunciante. Presto l’assessore dovrà presentarsi dai carabinieri della polizia giudiziaria per essere interrogato. Finozzi, che già è stato a capo di un’azienda che produceva sedie (attività fallita nel 2009), dal 2005 si era impegnato in una società dell’Alto Vicentino, la Venice Tecnologies srl, attiva nel settore dei mobili. L’allora capo del consiglio d’amministrazione, Marco Zordan, aveva incaricato un fotografo di preparare un catalogo con immagini di qualità dei prodotti.
Quando però il professionista, Maurizio Borgo, fattura alla mano, si era presentato per riscuotere il compenso, aveva ottenuto un «due di picche»: i soldi non c’erano. La cifra sarebbe stata superiore ai 10mila euro, compenso per due anni di lavoro. Nello stesso periodo Zordan aveva passato il testimone a Finozzi. In qualità di rappresentante legale della società, l’attuale assessore, mosso dalle migliori intenzioni, aveva sottoscritto un piano di rientro del debito, che però non era stato onorato. Dopo qualche mese di attesa e diverse richieste di spiegazioni, il fotografo si era rivolto a un legale per rivendicare i suoi diritti. Finozzi e i due imprenditori soci con cui era stata avviata l’attività, avevano giustificato i ritardi con il fatto che la società iniziava a sentire il contraccolpo della crisi che aveva investito il settore mobiliero nel 2008, assicurando che avrebbero pagato al più presto. Ma ancora niente. L’avvocato Francesca Marrigo, che assiste Borgo, era riuscita a ottenere un decreto ingiuntivo per pignorare i beni della società. Peccato che, secondo l’accusa, quando il provvedimento è diventato esecutivo, la sede della Venice Tecnologies era desolatamente vuota.
Una truffa, ha pensato il fotografo, che attraverso il suo avvocato ha promosso un’azione legale presentando un esposto alla magistratura, che ha avviato le indagini della sezione dei carabinieri di pg coordinati dal pm Claudia Dal Martello. Il pm ha dato loro incarico per una serie di interrogatori che verranno svolti a breve, tra cui quello di Finozzi. Ciò che la procura vuole stabilire è se la cessazione dell’attività sia stata una manovra strategica per dribblare il creditore, o se invece i tempi necessari per l’ottenimento del pignoramento dei beni aziendali e la conclusione delle attività della società siano solo una coincidenza temporale, favorita dalla crisi generale che ha messo molte imprese in ginocchio. In questo secondo caso, la questione diventerebbe risarcitoria, con l’archiviazione delle accuse. «Sono molto fiducioso - ha detto l’avvocato Ernesto De Toni di Padova, che assiste l’assessore leghista -. Non ci sono gli estremi per procedere penalmente. Nessuno ha detto che il debito non sarà pagato. Ritengo in ogni caso sia una questione che andava discussa sul piano civile», ha concluso, in linea con l’avvocato Marco Dal Ben che assiste Zordan.