Giorgio Napolitano è “un elettore che fa il suo dovere”, oltreché il presidente della Repubblica accolto in ogni piazza e in ogni teatro - nella nuova Italia della rivoluzione gentile - da ovazioni di popolo. Dunque, dice, andrà a votare. Poiché ci andrà anche sua moglie Clio dobbiamo sottrarre questi due voti ai 25 milioni e 332 mila 487 che servono ad ottenere il quorum. In casa mia siamo in dieci, a votare: coi voti dei coniugi Napolitano fanno dodici. Ne mancano 25 milioni e 332 mila 475. Potremmo tutti insieme cominciare a contare quanti voti portiamo, e vediamo quanti ne mancano al quorum. Rinunciare a votare è un delitto, in democrazia. Io credo che gli italiani l’abbiamo capito benissimo. Sarà una sorpresa per molti svegliarsi il 13 mattina e vedere quanta gente c’è che ha detto: eccomi.
Di certo per tutti quelli che non vedono quella che il giorno del voto abbiamo chiamato, appunto, “rivoluzione gentile”. Ilvo Diamanti ieri la definiva “svolta mite”. Quella. Di quale sia la lezione che ci ha dato il risultato delle amministrative - il clima nel Paese che ha prodotto quel risultato - abbiamo parlato ieri. Le folle che hanno festeggiato i 150 anni dell’Unità d’Italia e il festoso consenso di cui gode il capo dello Stato ne sono altri sintomi. La rabbia anziché esplodere in violenza, come in passato è accaduto, si è trasformata in partecipazione. Il risentimento ha preso il verso della satira, si è fatto ironia. La politica del sorriso ha vinto su quella delle urla. Le parole di senso sugli insulti. E’ una vittoria fragile, va curata e fatta crescere come una pianta: va coltivata. Vi rimando oggi alla lettura di Marco Simoni, sull’interpretazione del voto.
Serve adesso, scrive, un patto chiaro con gli elettori - tra i partiti politici e gli elettori - se si vuole avere la speranza di riuscire ad approvare riforme profonde ed efficaci. “Senza la politica dei progetti e delle idee forti qualsiasi tattica non porta lontano”. Sta parlando del governo che verrà. Non si parla che di questo, del resto.
Al vertice di Arcore nessun accordo con la Lega è stato raggiunto. Nulla di fatto sul fisco, altre promesse - ormai logore - sul federalismo. Una scialba riproposizione della trovata pre-elettorale di portare i ministeri al Nord: non i ministeri, dice adesso il premier, ma “rappresentanze”. Persino sui referendum deve aver capito l’aria che tira: prima ha detto che erano inutili mentre con l’altra mano presentava ricorso. Ora dice che rispetterà la decisione popolare. Bontà sua.
Intanto riesce ad ottenere con Lorenza Lei quel che non ha potuto con Masi: chiudere Annozero, nel suo senile giudizio responsabile del risultato elettorale (come se Santoro non ci fosse stato anche prima, negli anni, come se Santanchè e Belpietro non fossero lì ospiti fissi, come se gli italiani fossero stupidi). E’ un capriccio da Sultano, il secondo dei diktat che gli si ritorcerà, come sempre, contro. Non sotto il profilo economico, certo, che più ascolti perde la Rai e meno vale la pubblicità sulle reti pubbliche più ascolti e più soldi incassano le sue reti Mediaset. Parlo di credibilità e di consenso. E’ che la censura, in generale, è sempre un boomerang. Oltre che illiberale è dannosa per chi la pratica e persino per chi la auspica. Vale per tutti.
Inoltre, Santoro andrà alla Sette portandosi dietro quelli che lo seguono. Ci sarebbe andato anche Fazio, se non gli avessero confermato il programma. Gabanelli, Saviano. C’è sempre un posto dove andare, se hai qualcosa da dire e qualcuno a cui piace ascoltare.
martedì 7 giugno 2011
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