giovedì 30 giugno 2011
Il video di Francesco Speroni in auto a 316 chilometri all’ora. È questo il nuovo record di velocità raggiunto dall’eurodeputato leghista, che ieri è stato ospite del programma di Radio2 Un giorno da pecora. Considerato il fatto che già in passato Speroni aveva dichiarato di correre molto con la sua macchina in Germania, dove non ci sono limiti di velocità, in trasmissione gli è stato chiesto conto di nuovi record. La risposta: “L’ultima volta avevo detto 313, sono arrivato— sempre di tachimetro — a 316 chilometri. E lo si può vedere anche su YouTube, se uno vuole”. Debora Serracchiani, ospite in studio, interviene: “Anche se in Germania non ci sono limiti di velocità, c’è sempre il buon senso a cui fare riferimento”. Speroni precisa: “Non sono uno che viola le regole, in questo caso la regola tedesca mi consente quella velocità. Il buon senso è un altro discorso, ognuno ha il suo. Ovviamente vado veloce quando non c’è nessun altro. I rischi ci sono dappertutto: magari uno sta a casa sua e gli viene il terremoto”.
Un attacco con 2.000 uomini armati in una valle italiana non si vedeva dalla Seconda Guerra Mondiale. Una politica così indifferente alla voce dei cittadini non si ricordava dal governo Tambroni e dai fatti di Genova del 1960 seguiti da una repressione generale in tutta Italia con morti e feriti tra i cittadini. Pertini (dov'è in questi giorni un Pertini?) disse "Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, nè potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza. Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono la libertà... e la giustizia sociale".
Oggi è ministro degli Interni Maroni, condannato per resistenza a pubblico ufficiale, novello sciaboletta al comando delle Forze dell'Ordine. Un tambroncino. Un signore che, insieme a tutto il suo partito, ha rinnegato le origini della Lega di "Padroni a casa nostra". Lo racconti agli abitanti della Val di Susa e ai vicentini che si oppongono alla base militare americana Dal Molin, la più grande d'Europa, lo spieghi ai lombardi, ai piemontesi e ai liguri infiltrati dalle criminalità organizzate, che sono padroni a casa loro.
Il procuratore aggiunto Pietro Forno e il pm Antonio Sangermano, nel loro intervento per ribadire la richiesta di processo per Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti per il caso Ruby, hanno parlato di un ”bordello” riferendosi a un ”sistema per compiacere Silvio Berlusconi”.
I due magistrati hanno spiegato davanti al gup di Milano Maria Grazia Domanico che l’attivita’ di induzione e favoreggiamento della prostituzione da parte dei tre imputati per i presunti festini a luci rosse ad Arcore era un ”sistema non occasionale” e ”ben organizzato per compiacere Silvio Berlusconi”.
I due pm hanno dunque utilizzato anche la parola ”bordello” per descrivere il sistema dei presunti festini hard nella villa del premier. Secondo i pm, era Nicole Minetti ad amministrare il ”bordello”.
Dopo una camera di consiglio durata oltre un’ora, nonostante l’opposizione delle difese di Emilio Fede, Nicole Minette e Lele Mora, il gup ha accolto la richiesta. Sono le prime parti civili nell’ambito del caso Ruby, dove il direttore del Tg4, la Minetti e l’impresario dei vip sono indagati a vario titolo per favoreggiamento e induzione alla prostituzione, anche minorile, nel caso Ruby.
Una delle ragazze ammesse come parti civili, Chiara Danese, si è presentata in udienza preliminare. Il gup nella sua ordinanza ha spiegato che il reato di induzione alla prostituzione, previsto dalla legge Merlin, si è evoluto nel tempo e dunque non è più solo un reato contro la morale pubblica, ma può danneggiare anche le persone fisiche e la loro immagine. “Il danno – hanno spiegato i legali delle due ragazze – sta nei comportamenti degli imputati che hanno portato le ragazze ad essere associate a ruoli che non hanno mai avuto”.
Nel loro intervento davanti al gup Maria, il procuratore aggiunto di Milano Pietro Forno e il pm Antonio Sangermano hanno parlato “di un sistema strutturato per fornire ragazze disponibili a prostituirsi”
martedì 28 giugno 2011
L'infortunio sul lavoro si era verificato il 23 giugno nel cantiere del palasport comunale di Laives (Bolzano), dove era in corso la messa a norma dell'impianto elettrico. L'operaio della ditta Bettiol di Villorba era stato travolto accidentalmente dal crollo di una parete che un altro operaio stava abbattendo.
Primo Martin, 56 anni, di Dosson, era stato ricoverato subito in ospedale a Bolzano in gravissime condizioni, nel reparto di Rianimazione. E' stato tentato anche un intervento chirurgico per salvargli la vita, ma le ferite erano troppo gravi. L'operaio si è spento stamattina dopo quattro giorni di agonia. L'Ispettorato del Lavoro e l'autorità giudiziaria hanno aperto un'inchiesta.
lunedì 27 giugno 2011
Ma perché gridare alla censura? Come motivate quest’allarme?
«La questione alla base è che il diritto d’autore sul web ha tantissimi ambiti ed è possibile che l’industria del copyright metta in piedi interi uffici dedicati a segnalare presunte violazioni all’Autorità, come avvenuto in altri Paesi. L’Autorità non avrà i mezzi per gestire le decine di migliaia di segnalazioni che arriveranno. Sarà il Far west, ci saranno decisioni sommarie, ai danni di siti anche innocenti. Siamo il primo Paese al mondo a dare ad Agcom questo potere. Calabrò stesso ci ha detto che sa di muoversi in un territorio di frontiera… ».
Però ci si potrà difendere opponendosi all’oscuramento del sito.
«Secondo la delibera, potrà farlo il gestore del sito web, ma non l’utente che carica il contenuto in questione. Sarà un salto nel buio. Il nostro colloquio con Calabrò ci ha confermato che l’Autorità non è preparata a questo».
Perché non lo è?
«Per esempio: abbiamo detto a Calabrò che i provider Internet avranno grosse spese per rimuovere i contenuti dal web e lui ci ha risposto che non lo sapeva, che non gliel’avevano detto. Non ci ha mai risposto con numeri e criteri oggettivi alle nostre critiche».
Ma la censura avrà anche un colore politico?
«Sì e questo rende la cosa ancora più grave. Siamo in un Paese in cui la denuncia per diffamazione è facile ed efficace, per mettere a tacere media. In un sistema politicizzato come il nostro, questo nuovo potere che Agcom potrebbe aggravare il fenomeno. Dalla denuncia per diffamazione all’oscuramento d’Autorità di un sito il passo è breve».
Perché vi è sembrato che Calabrò avesse molta fretta di completare la delibera?
«In precedenza Agcom ci aveva promesso, per tenerci buoni, tanti incontri di mediazione e che il testo definitivo non sarebbe stato subito esecutivo ma che sarebbe stato messo in consultazione. Adesso invece ha deciso che già prima dell’estate, probabilmente il 6 luglio, arriverà a una delibera fatta e compiuta».
Come ti spieghi questa fretta?
«Siamo in un contesto di grossa instabilità politica. In questo momento il clima è ancora favorevole agli interessi di Mediaset, ma Agcom teme che non sarà presto così e quindi vuole chiudere in fretta la vicenda. E’ un altro effetto del conflitto di interesse del presidente del Consiglio».
L’interesse delle lobby del copyright è evidente. Ma di Mediaset? E’ solo quello di tutelare il proprio diritto d’autore sul web (ha denunciato in passato Google per video su YouTube, del resto)?
«Non solo. Lo scopo è forgiare il web in modo simile al mercato che loro conoscono e depotenziandone la minaccia al loro business. Hanno fatto così anche con la delibera sulle web tv».
Che farete se la delibera passa così com’è?
«Faremo ricorso al Tar del Lazio. Se necessario a Bruxelles, ma crediamo che il Tar bloccherà la delibera, che secondo molti esperti è illegittima, poiché viola diritti fondamentali del cittadino. Ma visto che ci sono forti interessi del Presidente del Consiglio a far passare quelle norme, il governo potrebbe intervenire direttamente con un decreto, in caso di blocco al Tar».
sabato 25 giugno 2011
Hanno diffuso la notizia i familiari dell'attore, che non hanno voluto precisare le cause della morte. Falk, scrive il magazine Ktla di Los Angeles, soffriva di demenza senile e morbo di Alzheimer. Nel 2009, un giudice ha stabilito la conservazione dei suoi beni dopo la battaglia legale tra la figlia Catherine e la moglie per oltre 30 anni, Shera Falk.
Peter Falk ha vinto quattro Emmy per il suo ruolo da protagonista nel telefilm degli Anni '80 «Il tenente Colombo». Ha avuto e altri riconoscimenti per le sue interpretazioni in film come «La grande corsa» di Blake Edwards. Ottenne anche un Golden Globe per «Il tenente Colombo» e due nomination all'Oscar come 'attore non protagonista' nel 1961 e nel 1962, rispettivamente per «Angeli con la pistola» di Frank Capra e «Sindacato assassini».
Ha impersonato un detective molto particolare. Dagli abiti sgualciti, senza pistola, che scovava i delinquenti - di norma gli insospettabili, spesso persone in apparenza per bene e altolocate o comunque bramose di denaro - pescando le contraddizioni, le tracce lasciate che nessuno vedeva. E li prendeva in castagna regolarmente. Senza sparare un colpo di pistola. Classico il suo comportamento: quando aveva capito ma aveva bisogno di una conferma sul sospettato o sulla sospettata, faceva un po' di domande, quello pensava di aver davanti uno mezzo tonto, pensava di cavarsela, poi il tenente tornava indietro e gli faceva un'altra domanda che gli rivelava quel che cercava.
venerdì 24 giugno 2011
Questi anni alla Fiom
Bilancio di stagione per Landini. Dalla Fiat a Confindustria.«Il lavoro è un bene comune».
Era questo lo slogan lanciato dalla Fiom il 16 ottobre 2010 in occasione dello sciopero generale organizzato dal sindacato dei metalmeccanici. Un leitmotive che in questi mesi ha attraversato piazze, fabbriche, aule universitarie, urne elettorali, tavoli sindacali e ministeriali per diventare il motto ufficiale di un compleanno importante: i 110 anni della Fiom, i cui festeggiamenti finali avranno luogo nel week end del 24 giugno a Sesto San Giovanni, in provincia di Milano.
Un anniversario quello del 2011 a cui la Fiom è arrivata con qualche acciacco. È stato un anno difficile quello che l'organizzazione sindacale dei metalmeccanici ha dovuto affrontare. Dall'accordo separato di Pomigliano a quello di Mirafiori, dalla dismissione di Termini Imerese alla causa legale intentata contro la Fiat e che probabilmente si concluderà il 16 luglio.
UN ATTACCO ALLA DEMOCRAZIA. Un anno intenso per un sindacato che ha lottato contro tutto e contro tutti per ribadire l'importanza del contratto nazionale di lavoro in un momento in cui quelli “ad aziendam” si impongono sulla scena lavorativa italiana.
«Se in questo Paese si arrivasse a fare provvedimenti di legge che recuperino l'idea di mettere in discussione il contratto nazionale di lavoro, sarebbe un attacco alla democrazia senza precedenti», ha detto il segretario generale della Fiom Maurizio Landini che della lotta per il contratto nazionale ha fatto il suo cavallo di battaglia.
Il 24 giugno, mentre a Roma era in corso il tavolo Confindustria-sindacati sulle regole della rappresentanza e dell'esigibilità dei contratti e sotto la Madonnina una settantina di operai della Lucchini Severstahl di Piombino manifestava davanti a Mediobanca per chiedere all'istituto di Piazzetta Cuccia di aderire alla rinegoziazione del debito bancario e salvare 3.200 dipendenti, il capo della Fiom è arrivato alla Camera del lavoro di Milano e dopo aver presentato il programma dei festeggiamenti finali dei 110 anni della Fiom ha raccontato a Lettera43.it le emozioni e le aspettative di quest'anno di lotte sindacali e legali.DOMANDA. Qual è stato per la Fiom il momento più difficile di quest'anno?
RISPOSTA. Sicuramente quando è stato siglato l'accordo separato di Pomigliano. In quel momento la Fiom era sola, tutti ci dicevano che facevamo un grosso errore a non firmare.
D. Avete iniziato a pensare che avessero ragione?
R. No, mai. È stato un momento molto complicato, ma subito dopo abbiamo avuto una conferma che la nostra scelta era quella giusta.
D. Da parte di chi?
R. Dei lavoratori di Pomigliano. Penso che è proprio grazie alla loro dignità che si è aperta una fase nuova di questo Paese.
D. Soprattutto per voi?
R. Sì, il fatto che a Pomigliano i nostri lavoratori non abbiano accettato il ricatto, che i 3 operai licenziati a Melfi abbiano ribadito che volevano lavorare, sono eventi che hanno dato visibilità alla contrarietà della Fiom. Da soli senza il consenso delle persone non saremmo andati da nessuna parte.
D. In lotta con l'azienda, criticati dai politici e condannati dagli altri sindacati. Vi siete sentiti messi in un angolo?
R. No, per me un sindacato è isolato quando le lavoratrici e i lavoratori che rappresenta non lo seguono più. Io questa sensazione non l'ho mai avuta, anzi ho sempre visto un consenso che da Pomigliano in poi non ha fatto altro che crescere dentro e fuori le fabbriche.
D. Con le istituzioni però lo scontro c'è stato.
R. Questo è successo a causa di una arretratezza dell'analisi delle forze politiche, anche della sinistra, sul problema del lavoro.
D. Che tipo di arretratezza?
R. Un anno fa qualcuno ci spiegava che quell'accordo l'avremmo dovuto firmare perché era il male minore e che non sarebbe successo nient'altro. Mi pare che dopo un anno si è capito che quella era una strategia precisa e a lungo termine.
D. Piero Fassino, che davanti ai cancelli di Mirafiori promuoveva l'accordo, si sarà ricreduto?
R. Non credo, forse continua a pensare le stesse cose. A ricredersi sono state però tante persone normali. Dal 16 ottobre in poi c'è stato un consenso senza precedenti alle nostre battaglie, perchè il lavoro è un bene comune.
D. Come canterebbe Franco Battiato, più che un vento, è un sentimiento nuevo?
R. Credo che la novità vera sia stata che per la prima volta, dopo tanti anni, in Italia su una piattaforma sindacale, su una lotta dei lavoratori, è stato possibile costruire un movimento di cui facevano parte gli studenti, i precari, i movimenti ambientalisti quelli che si battevano per il referendum.
D. Quella della ex Bertone però è stata una battosta per la Fiom, le vostre Rsu hanno firmato l'accordo.
R. No anzi è stata una scelta motivata e precisa. Insieme ai delegati abbiamo deciso di dire: «Non sono i lavoratori che si auto licenziano». E sono gli stessi operai che hanno chiesto alla Fiom di andare avanti e non firmare. Tanto che finite le assemblee abbiamo fatto 21 nuovi iscritti.
D. Avete rischiato di dividervi?
R. Certo la nostra è stata una mossa azzardata, d'altronde la Fiat l'ha fatto apposta, pensava che alla Bertone poteva darci una botta.
D. Perché?
R. Lì siamo maggioranza, pensavano che con il nostro voto ci saremo auto licenziati.
D. Invece le vostre Rsu hanno firmato ma la Fiom no, anzi ha fatto causa alla Fiat per il contratto di Pomigliano.
R. La nostra mossa non se l'aspettava nessuno e ha creato problemi alla Fiat e agli altri sindacati perché non credevano che riuscissimo a uscire dalla trappola in cui loro avevano cercato di metterci.
D. Processo a Torino: se il giudice vi darà ragione e imporrà alla Fiat di applicare il contratto collettivo nazionale di lavoro, l'azienda potrebbe decidere di chiudere. Vi sentireste responsabili per quei lavoratori?
R. No, sono convinto di aver fatto la cosa giusta perché è l'unico modo per difendere le persone che rappresento. Se vinciamo, il problema non è nostro ma di chi dice che se ne va via perché non vuole applicare le leggi e i contratti.
D. Della Fiat quindi?
R. Troverei singolare che in questo Paese un'azienda possa dire che non fa più impresa perché è costretta a rispettare la legge. Vorrebbe dire che le aziende che invece lo fanno sono dei coglioni. Sarebbe un problema del governo, delle istituzioni e delle forze politiche.
D. Allora sareste voi a mettere la Fiat in un angolo?
R. La nostra dal punto di vista sindacale è una posizione moderata, noi chiediamo solo che si applichino le leggi, mica vogliamo la riduzione di orario o il raddoppio degli stipendi o cose per cui non ci sono le condizioni.
D. Anche la Confindustria sta soffrendo le decisioni della Fiat?
R. Sì, la Confindustria sta rincorrendo la Fiat perché se passa l'idea che si può uscire da Confindustria e non applicare i contratti, perché mai le imprese dovrebbero organizzarsi in associazioni?
D. Qual è la sua difficoltà?
A. Fatica a rappresentare e a difendere gli accordi che sottoscrive.
D. Il problema della rappresentanza allora è tutto italiano?
R. Sì, in questo Paese vale per tutti, è anche vero, però, che l'Italia ha un modello sindacale tra i più avanzati.
D. Perché?
R. Abbiamo il contratto nazionale, la contrattazione aziendale e addirittura le Rsu come soggetto eletto dai lavoratori che può contrattare.
D. Per questo dicono che è troppo complicato e che negli Stati Uniti è tutto più semplice?
R. No, sono solo diversi. In America non c'è la confederazione, il sindacato è un'associazione di mestiere, di mercato, non esiste il contratto nazionale quindi neanche una solidarietà tra i lavoratori. Il modello è totalmente aziendale e corporativo.
D. Ma se siete così diversi, che punto di accordo troverete con il leader del sindacato americano Uaw Bob King con il quale scriverete una lettera di richieste a Sergio Marchionne?
R. Anche negli Stati Uniti vogliono cambiare. Se si è arrivati alla bancarotta di Chrysler e General motors è perché quel sistema non ha funzionato. La sanità e la pensione sono aziendali e continui a pagarla anche agli operai che vanno in pensione. Questo ha messo in crisi il sistema quando sono arrivate aziende giapponesi e cinesi che potevano applicare condizioni diverse. Non avere contratti nazionali nè uno stato sociale è un problema. Per questo nella rete mondiale di sindacati che costruiscono auto dobbiamo lavorare per far applicare i diritti e impedire che ci sia competizione.
D. Cercate l'unità a livello mondiale ma siete sempre più divisi a livello nazionale?
R. Cisl e Uil stanno puntando a un altro modello sindacale. Per loro la contrattazione non è più l'oggetto centrale, davanti a questa situazione di crisi dicono che non c'è nulla da fare, che bisogna accettare quello che sta succedendo, e vogliono ricavarsi un ruolo più di servizio.
D. Assistenza ai pensionati e ai disoccupati?
R. Non a caso stanno dicendo che bisogna fare gli enti bilaterali, che imprese e sindacati insieme gestiscano le assunzioni, la formazione, la cassa integrazione e i servizi. La diversità tra la Cgil e gli altri sindacati è che noi crediamo che la contrattazione sia la nostra missione e che sia ancora possibile.
D. Rottura definitiva allora?
R. Se non si definiscono regole democratiche che gestiscono i dissidi tra i sindacati sì. La storia del sindacato italiano è sempre stata caratterizzata dall'unità di azione. Oggi questa unità non c'è più e per questo credo che far votare i lavoratori sia l'unica soluzione per tenere unite persone diverse.
D. Democrazia sindacale diretta?
R. Solo così si possono gestire situazioni difficili quando i sindacati hanno idee diverse, anche perché altrimenti in assenza di queste regole, sono le imprese che decidono al nostro posto.
D. Avete mai pensato di fare come la Germania dove per superare la crisi i sindacati hanno fatto una sorta di patto di non belligeranza con le aziende mettendo in deroga i contratti nazionali?
R. È vero la Volkswagen è passata da 28 ore a 33, ma in Italia se ne fanno già 40, poi non hanno chiesto aumenti salariali ma gli operai prendono uno stipendio di 2.200 euro al mese, qui da noi ne guadagni 1.300. E poi c'è stato anche un accordo: in Germania non hanno chiuso fabbriche, non hanno fatto licenziamenti, qui sì.
D. Ma voi perchè non siete riusciti a contrattare su niente?
R. Nel rinnovo del contratto del 2008, per evitare gli accordi separati, avevamo proposto a Film, Uilm e Federmeccanica di fare un accordo ponte con un aumento una tantum salariale e il blocco dei licenziamenti, ma ci hanno detto di no. È singolare allora che si dicano facciamo come fanno i tedeschi e poi quando glielo proponi non lo fanno
Domenica 3/7/11; cena sul ponte di San Giorgio. Per la felicità di pochi si mette a disagio gran parte della comuntià. Auguriamo ai partecipanti alla cena e agli organizzatori che quella serata possa venire giù un'aquazzone paragonabile al diluvio universale. Inoltre spero vivamente che toponi di 50 cm e oltre possano risalire dalle sponde dei laghi e insinidiarsi tra le gambe dei commensali. Buona cena a tutti
Renzo Arbore, La vita é tutto un quiz. Le Ragazze Coccodé. Cacao Meravig...
1987: prestate attenzione al testo e riflettiamo su come con l'avvento delle tv commerciali hanno tentato di ridurci ad un ammasso di imbecilli. Con qualcuno ci sono riusciti, con qualcun altro per fortuna NO
domenica 19 giugno 2011
sabato 18 giugno 2011
– ''Tutti in piedi contro le logge vecchie e nuove che vogliono mettere il bavaglio alla liberta' di informazione e dissolvere la Rai come aveva previsto Licio Gelli. Lo straordinario successo della serata promossa dalla Fiom e dalla squadra di Annozero conferma che ormai c'e' una Italia che non si fara' zittire e che non si fermera' sino a quando gli imbavagliatori e i censori di ogni colore non se ne saranno andati''. Lo dice in una nota il portavoce di Art. 21 Giuseppe Giulietti.
''Chiunque abbia a cuore l'articolo 21 della Costituzione non puo' che ringraziare Michele Santoro, Marco Travaglio, Vauro, Serena Dandini le tv Current e Rainews che hanno trasmesso l'evento, i siti internet e blog e tutti quelli che ci hanno regalato un'altra straordinaria serata all'insegna del talento, della creativita', della liberta' – aggiunge Giulietti -. Per queste ragioni rilanceremo la raccolta di firme per chiedere che Annozero torni alla Rai, anche al costo di un euro a puntata, e che alla porta siano invece accompagnati quelli che hanno sequestrato un bene comune e lo hanno reso un satellite della concorrenza. Per queste ragioni chiederemo a tutte le associazioni che hanno promosso e organizzato le grandi iniziative per la legalita' e per la liberta' di informazione dei mesi e degli anni scorsi, di promuovere una grande giornata nazionale di raccolta delle firme per chiedere non solo la fine di ogni censura – conclude Giulietti – ma anche per sollecitare la definizione di una proposta di legge comune per recidere il conflitto di interessi e per allontanare definitivamente i partiti dal controllo diretto della autorita' e della Rai. Adesso e' davvero il momento di 'alzarsi in piedi' e di rivendicare il dissequestro dei beni comuni!''
martedì 14 giugno 2011
Il giorno 15 giugno ci sarà un bellissimo spettacolo da osservare in cielo: l'eclissi lunare, la luna diventerà completamente rossa! La fase più appariscente comincierà alle ore 21:22, la città dove si potrà vedere meglio tutto lo spettacolo è Ragusa, ma fortunatamente si potrà vedere in tutt'Italia tempo permettendo!
lunedì 13 giugno 2011
La legge è uguale per tutti" è una bella frase che rincuora il povero, quando la vede scritta sopra le teste dei giudici, sulla parete di fondo delle aule giudiziarie; ma quando si accorge che, per invocar la uguaglianza della legge a sua difesa, è indispensabile l'aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa alla sua miseria (Piero Calamandrei)
domenica 12 giugno 2011
Perde occasione di lavoro per disservizi delle Poste. Fa ricorso. E deve pagare 3mila euro
Paola Cutugno, giovane laureata di Messina, vuole tentare un concorso all'università di Pavia per uscire dal precariato. La busta con il materiale necessario non arriva e l'occasione sfuma. Le poste le concedono 28 euro a titolo di rimborso. Lei rifiuta e fa causa. Ma perde e deve pure risarcire 3mila euro di spese legali alle Poste, che sono tutelate su questi "incidenti" da una vecchia legge
Trentaquattro anni, una lode in chimica e tecnologia farmaceutiche. E 450 euro al mese di stipendio come precaria, per via di una raccomandata persa dalle Poste Italiane, che se fosse arrivata a destinazione avrebbe potuto consentirle un buon posto di lavoro all’Università. E ora, anche la beffa di dover rimborsare più di 3mila euro, proprio alle Poste, per via di un ricorso perso. E lo sconforto di chi si sente solo e inerme di fronte a una giustizia che non capisce.
La storia, surreale, è quella di Paola Cutugno, una giovane laureata di Messina, che nel 2009 decide di partecipare ad un concorso all’Università di Pavia. La farmacia in provincia di Terni in cui ha lavorato fino a quel momento sta per chiudere e lei decide di cercare altre opportunità in giro per l’Italia. “Entrare in Università – racconta Paola a ilfattoquotidiano.it - era sempre stata una delle mie aspirazioni. Vidi questo concorso per un buon posto di tecnico a Pavia, presso il Centro per l’Innovazione e trasferimento tecnologico. Era l’agosto 2009 e mi ci gettai a capofitto, anche se si trattava di spostarsi di centinaia di chilometri. Più di una settimana prima della scadenza inviai tutta la documentazione, tramite raccomandata con ricevuta di ritorno, fiduciosa di poter partecipare alle prove. Attesi qualche giorno e controllai dove fosse il mio plico, tramite il servizio di tracciabilità online della corrispondenza fornito da Poste Italiane. Risultava fermo a Roma e cominciai a preoccuparmi. A quel punto partirono una serie di telefonate al servizio assistenza clienti delle Poste e all’Università: la raccomandata non era arrivata, mancavano pochi giorni al termine utile per la ricezione, e dal call center delle Poste non riuscivano a dirmi precisamente cosa ne fosse del mio plico. Mi dissero di fare un reclamo per sapere qualcosa di preciso. Lo feci, ma nel frattempo il termine scadde e all’Università non avevano avuto nulla. Ero disperata”.
A questo punto la storia di fa ancora più interessante. La giovane farmacista dopo qualche giorno riceve una lettera dalle Poste in cui si dice che la raccomandata è andata persa e che le arriverà un rimborso. L’assegno arriva puntuale: 28,5 euro, dieci volte precise il valore della raccomandata. “Rimasi di stucco, indignata – spiega Paola – e decisi di non incassare, ma di rivolgermi a un avvocato, volevo fare qualcosa, mi sentivi presa in giro, non mi sembrava possibile che una opportunità così importante per me fosse sfumata così. Nel frattempo continuavo a cercare di capire con l’Università se c’era qualcosa da fare per rimediare, ma nonostante la disponibilità e la gentilezza del personale di Pavia, ormai la frittata era fatta”.
Paola, sconfortata, si rivolge a una lega consumatori di Terni dove le spiegano che ci sono gli estremi per fare ricorso, e con un avvocato decide di presentarlo. L’intento è quello di ottenere il risarcimento dei danni, in quanto non ammessa a partecipare al concorso. Danno da perdita di chance si chiama, le spiega l’avvocato. E le possibilità di vincere, aggiunge, sono buone, perché oltretutto da ricerche successive, emerge che al concorso sono presentati solo in cinque, e tutti con un punteggio di partenza più basso del suo. Insomma, quel posto Paola avrebbe potuto averlo sul serio, e ora non guadagnerebbe meno di 500 euro con un co.co.co. A valle di tutto questo, poco meno di due anni dopo l’inizio dell’intera vicenda, giustizia lampo in questo caso, il tribunale di Terni si è pronunciato e ha stabilito che Paola non ha diritto a nulla se non ai ventotto euro. E che oltretutto ora deve pagare 3.150 di spese legali alle Poste. “Sono disperata – dice la ragazza al telefono, e qui riesce a trattenere a stento le lacrime – io non li ho ora quei soldi, mi sento talmente presa in giro…”.
Ma come è possibile che le Poste abbiano vinto la causa e pur avendo perso la raccomandata ora siano loro in pratica a dover essere rimborsate? Lo spiega la sentenza del tribunale di Terni. Il cosiddetto “ristoro” in caso di perdita di raccomandata da parte delle poste è fissato da un decreto del presidente della Repubblica del 1973, il numero 156. Ed è costituito esclusivamente dl pagamento di un’indennità pari, appunto, a dieci volte il valore della raccomandata. Ventotto euro, in questo caso. Una tutela lascito di quando le poste erano un ente completamente pubblico e che è diventata progressivamente inattuale da quando la società guidata da Sarmi è stata trasformata in ente pubblico economico e società per azioni.
Su questo punto si è espressa anche la Corte Costituzionale nel 1997, riconoscendo che “il rapporto tra la amministrazione delle Poste e gli utenti dei servizi offerti si estrinseca in atti che perdono il carattere autoritativo ed assumono connotazioni contrattuali e che la progressiva assimilazione alla disciplina di diritto comune è ancora più accentuata nella prospettiva della trasformazione dell’amministrazione postale in ente pubblico economico in società per azioni”. Ma che, dato il carattere speciale e la complessità del servizio postale, va escluso l’obbligo di risarcimento oltre l’indennità pari a dieci volte il diritto fisso di raccomandazione. Linea sostanzialmente confermata da un’altra sentenza del 2002.
Ma mitigata da un’altra sentenza recente, la numero 46 del 2011, che per il caso di posta celere in ritardo, ad esempio, prevede che le Poste debbano pagare i danni. Una disciplina che è stata recepita solo in parte dal legislatore, con un decreto legislativo del 2003 (il numero 259). In pratica la vecchia dottrina della “non responsabilità” viene abrogata, ma restano fissi alcuni punti, come, in questo caso, quello del risarcimento prefissato. Di ventotto euro. Niente da fare quindi, per Paola, che ora si sta domandando se fare ricorso in appello. “Ho molta paura di finire a dover pagare ancora più soldi” – dice sconsolata – per cui credo che lascerò perdere”.
“Certo queste regole appartengono a un vecchio retaggio e costituiscono in qualche modo un privilegio. Tuttavia non è del tutto irragionevole che ci siano dei risarcimenti prefissati, vista la estrema complessità del servizio postale. Quello che mi viene da pensare, a parte questo, è che la ragazza forse non è stata ben consigliata dal punto di vista legale”. Rimane una possibilità, per evitare a Paola la beffa e il problema del 3mila euro da risarcire alle Poste? “Potrebbero decidere di soprassedere su questo punto” qualche volta in passato è successo”.
Referendum, parte la caccia al quorum: meglio votare entro le 12
Per il Tg1, viste le previsioni del tempo, oggi è la giornata ideale per una “bella gita”. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è partito già ieri. Destinazione Porto Rotondo, a Villa Certosa, lontanissimo dalla sezione elettorale di Milano dove abitualmente vota. La sua assenza ai seggi era ampiamente prevista. Ma l’importante è che ci vadano (è l’ultimo dato diffuso dal Viminale) almeno 25 milioni 209 mila 345 italiani. È il numero che può far raggiungere il quorum ai 4 referendum che si votano oggi e domani. Tutti mobilitati, quindi, possibilmente di mattina presto. Il dato dell’affluenza alle 12 di oggi è molto indicativo di come andrà a finire: sia perché, storicamente, ogni volta che a quest’ora i numeri erano già alti il quorum si è raggiunto, ma soprattutto perché sapere che molti sono andati a votare può servire a spronare anche i pigri e gli indecisi. “Il mattino ha il quorum in bocca” è lo slogan scelto dai comitati. Che ha già fatto proseliti: “Io metto la sveglia e vado presto al seggio. Facciamolo tutti”, ha scritto il segretario del Pd Pier Luigi Bersani su Facebook. Lo stesso annuncio dal leader Idv Antonio Di Pietro (“Alle 10 al seggio di Curno, provincia di Bergamo”) e dell’Udc Pier Ferdinando Casini che voterà a Roma “alle 10.15”.
Più voti ci sono, e meno saranno determinanti quelli dei 3 milioni residenti all’estero. I risultati oltre confine potrebbero venire messi in dubbio, poiché sul nucleare si è votato un quesito diverso da quello delle schede italiane (si era cercato di far saltare il referendum con una moratoria sulle centrali, dunque la Cassazione ha modificato il testo). L’opposizione ha chiesto di non calcolare i voti all’estero per il quorum, ma in assenza di una decisione (la Suprema Corte deciderà solo giovedì), meglio andare sul sicuro e cercare di portare a votare un numero maggiore di persone del 50% più uno degli aventi diritto. C’è ancora tempo, avvertono i comitati, per la “caccia al ‘più uno’” che “può nascondersi nel vicino di pianerottolo cui non hai ricordato la data del voto, nella zia alla quale non hai spiegato che le centrali non stanno solo in Giappone ma le vogliono portare anche in Italia. O nell’amico che non hai accompagnato al seggio prima di andare al mare”. Guardiamoci intorno (e presto)
sabato 11 giugno 2011
"Ho lavorato una vita nel nucleare vi spiego perché voterò sì al referendum"
Oltre due decenni di esperienza nel settore, visitando una sessantina di reattori in tre continenti, con la convinzione che le precauzioni prese negli impianti rendessero impossibile una catastrofe. Poi Three Miles Island, Chernobyl, Fukushima: tre disastri in meno di 30 anni...
Dopo essere stato allibito per l'incoscienza delle dichiarazioni di uno scienziato, il professor Battaglia (la pubblicazione di una sua opera scientifica con la prefazione di Silvio Berlusconi parla da sé), su un tema così importante per la sorte dell'umanità, mi sento costretto ad intervenire avendo dedicato tutta la mia vita professionale alla ricerca e sviluppo del nucleare ed essendo stato per lungo tempo "abbastanza" a favore dell'energia nucleare.
Dopo una laurea in Radiochimica presso l'Università di Roma e successivo Corso di Perfezionamento in Fisica e Chimica Nucleare, ho lavorato presso i laboratori di ricerca del plutonio di Fontenay-aux-Roses (Francia) nelle ricerche e tecniche del plutonio per l'impianto di riprocessamento del combustibile nucleare di La Hague. Ritornato in Italia ho partecipato, nei laboratori di ricerca della Casaccia (CNEN, ora ENEA), alla messa a punto degli impianti di separazione del plutonio di Saluggia e successivamente allo studio dei siti nucleari in vista della costruzione di centrali di energia nucleare. Dal 1982 sono stato distaccato dal CNEN presso l'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica (AIEA) di Vienna dove mi sono occupato prevalentemente di salvaguardie nucleari, in particolare per i reattori nucleari di potenza e di ricerca nel mondo. Per 22 anni ho avuto la possibilità di visitare ed ispezionare una sessantina di reattori in tre continenti, in particolare in Giappone ed in particolare proprio Fukushima.
Durante l'intera attività ero giunto alla conclusione che le precauzioni utilizzate negli impianti nucleari fossero tali da rendere praticamente impossibile un grosso incidente nucleare. Proprio il Giappone si presentava ai miei occhi come il modello per eccellenza di organizzazione, di perfezione, di attenzione al più piccolo dettaglio: l'energia nucleare o doveva essere realizzata così o non doveva esistere. Ed invece... Three Miles Island, Chernobyl, Fukushima... tre catastrofi in meno di 30 anni.
Oggi sono completamente convinto che i rischi dell'energia nucleari siano tali da consigliarne l'utilizzo solo se non ci fossero sulla Terra altre fonti di energia o dopo una guerra nucleare. Voterò quindi SI al referendum per le seguenti ragioni:
a) la progettazione di una centrale nucleare avviene sulla base di dati statistici puri, cioè su una probabilità estremamente bassa di un grosso incidente, anziché basarsi sul fatto che un incidente anche imprevedibile possa avvenire (per esempio: chi avrebbe mai potuto calcolare statisticamente che otto montanari dell'Afghanistan si potessero impadronire contemporaneamente di quattro jet di linea facendoli convergere sulle Torri di New York, sul Pentagono e sulla Casa Bianca? Chi potrebbe calcolare statisticamente la possibilità dell'impatto di un meteorite?) e quindi progettando nello stesso tempo le soluzioni e le difese: naturalmente questo però aumenterebbe enormemente i costi ed allora bisogna ricordarsi che l'energia nucleare è un'industria come tutte le altre, cioè che vuole fare profitti;
b) gli effetti di un grosso incidente non sono come gli altri: terremoti, inondazioni, incendi fanno un certo numero di vittime e danni incalcolabili, ma tutto questo ha un termine. L'energia nucleare no: gli effetti si propagano per decenni se non secoli, con un disastro anche economico per il Paese colpito. I discendenti delle bombe di Hiroshima e Nagasaki ancora subiscono danni. Altrimenti perché il deterrente di una guerra nucleare funziona talmente? Anche i bombardamenti "classici" causano morti molto elevate, ma non portano a danni simili per generazioni...
c) il blocco dell'energia nucleare in Italia del 1987 ha avuto il torto di fermare di botto non solo le quattro centrali in funzione (Trino Vercellese, Caorso, Latina, Garigliano) e la costruzione di Montalto con spese immani per un pazzesco riadattamento dell'impianto nucleare ad una centrale di tipo classico, ma altresì ogni tipo di ricerca nucleare, anche di eventuali impianti innovativi, creando un pericolo, dato l'impauperamento di una cultura "nucleare": non esistevano più corsi di scienze nucleari, né tecnici, né possibilità di tecnologie di difesa da eventuali incidenti in altre nazioni. E questo non è richiesto dalla rinuncia all'uso di centrali atomiche: la ricerca e lo sviluppo del nucleare dovrebbe poter continuare;
d) la presenza di impianti di produzione di energia nucleare porta ad una militarizzazione delle zone in questione: non c'è trasparenza, ogni dato viene negato all'opinione pubblica. Anche agli ispettori dell'AIEA viene proibito di comunicare con la stampa. Lo dimostra anche quello che è successo a Fukushima: il gestore ha tenuto nascosto per lungo tempo la gravità dell'accaduto. E in un territorio come il Giappone, sottoposto non solo a terremoti ma a tsunami, il costo di una maggiore precauzione per gli impianti di raffreddamento è stato tenuto il più basso possibile senza tenere conto dei rischi solamente per fare più profitto!
e) in tutto il mondo non è stato mai risolto il problema dello smaltimento delle scorie mucleari. Nell'immenso deposito scavato in una montagna di Yucca Mountain in USA si sono dovuti fermare i lavori, il maggiore deposito in miniere di sale della Germania si è dimostrato contaminato con pericoli per le falde acquifere, ecc. Il combustibile nucleare delle nostre centrali fermate è in gran parte ancora lì dopo 25 anni. D'altra parte un Paese come il nostro che non riesce a risolvere il problema dei rifiuti può dare garanzie sui rifiuti nucleari?
f) l'Italia è un paese sismico, dove l'ospedale e la casa dello studente dell'Aquila sono crollate perché al posto del cemento è stata usata sabbia. Può dare garanzie sugli impianti nucleari? E la presenza di criminalità organizzata a livelli preoccupanti può liberarci da particolari preoccupazioni nella scelta e costruzione di centrali atomiche?
g) ultima osservazione: anche se molti minimizzano gli effetti delle radiazioni nucleari, una cosa si può dire con certezza: gli effetti delle radiazioni a bassi livelli ma per tempi estremamente lunghi sugli esseri viventi non sono stati mai chiariti. Non deve essere solo il fumo a preoccupare l'opinione pubblica!
Per tutte queste ragioni penso che in Italia l'uso dell'energia nucleare non sia raccomandabile, perlomeno in questa fase della nostra storia, ed invece un miscuglio di diverse fonti di energia (eolica, solare, idrica, gas, geotermica) potrà sopperire ai nostri bisogni, accompagnato da una maggiore ricerca scientifica ed un diverso modello di vita con maggiore eliminazione degli sprechi. Io voto sì.
(10 giugno 2011)
venerdì 10 giugno 2011
Referendum: “Andate al mare, ma solo dopo aver votato”. L’ombrellone sarà gratis
“Prima a votare e poi gratis al mare” è lo slogan lanciato da una ventina di stabilimenti della Versilia, tra Viareggio, Lido di Camaiore, Marina di Massa, ma si è aggiunta anche Pisa, e il numero sembra aumentare di ora in ora. Se l’anatema contro i referendum, fin dai tempi di Craxi, è da sempre stato l’invito ad andare al mare, in Versilia ribaltano il concetto invitando tutti quelli che hanno votato a godersi un’intera di una giornata di ombrellone gratis.
Basterà presentarsi all’ingresso dei bagni elencati tenendo in mano una scheda elettorale timbrata per avere diritto all’ombrellone senza sborsare un euro.
“Non ci interessa minimamente sapere se si è votato SI o NO”, racconta Laura Botarelli titolare del bagno Il Cavallone, uno dei bagni che hanno lanciato l’iniziativa, “quello che ci importa è che la gente partecipi a questo strumento di volontà popolare. Se grazie al nostro invito stimoleremo anche una sola persona in più a entrare nei seggi, allora avremo raggiunto il nostro scopo”.
Per chi ha il lunedi libero e abita in Versilia – ma magari nel frattempo si uniranno altri stabilimenti in giro per l’Italia – basterà alzarsi un po’ prima, passare al seggio e poi andare in spiaggia. “Qualcuno ha storto il naso perchè teme una connotazione politica all’iniziativa” spiegano Sandra Garuglieri del Bagno Sodini e Nicoletta Vespa del bagno Panoramic1 “ma si sbaglia, perchè argomenti come l’acqua e il nucleare sono importanti per tutti, decidono il futuro dei nostri figli e vanno oltre ogni convinzione o schieramento”.
I balneari, in mobilitazione permanente contro l’applicazione delle norme europee sulla libera concorrenza che dal 2015 mette all’asta le loro concessioni demaniali, invece di essere lo specchietto per le allodole per disertare i seggi, diventano così un’attrattiva proprio per chi, tra domenica e lunedì, alle urne ci sarà andato davvero. Magari per festeggiarne insieme l’esito in spiaggia la sera stessa.
Ascoltando quelle parole, sono rimasto basito. Perchè da una parte dimostravano l'assoluta mancanza di conoscenza delle leggi italiane; dall'altra erano pronunciate con una arroganza ed un tono insultante verso quelle persone che affermavano una semplice verità.
Vediamo perchè. Secondo le leggi attuali, perchè un processo si svolga c'è bisogno di un cancelliere, presente in aula, che ha due compiti: fare un verbale sommario dell'udienza in corso (in questo coadiuvata dallo stenotipista) e fungere da notaio in aula. Qualsiasi documento venga depositato, qualsiasi testimone venga ascoltato, qualsiasi richiesta venga fatta, deve essere registrata dal cancelliere e - nel caso di un documento - timbrato e firmato. E' chiaro che, finchè non si cambiano le leggi, in un Tribunale serve almeno un cancelliere per ogni aula in cui si svolge l'udienza. Ma contemporaneamente servono altri cancellieri per tenere in funzione le varie attività "fuori udienza" del Tribunale. Cioè tenere aperto l'ufficio per la consultazione dei fascicoli, l'ufficio dove vengono conservate le prove, e così via. Se i cancellieri sono pochi, come si fa a fare tutto questo? Quindi Brunetta mente o non sa che sta dicendo sciocchezze.
Poi il MInistro accusava i giudici di non lavorare molto, tanto è vero (ha ripetuto più volte) che il pomeriggio se si va in Tribunale non c'è nessuno. Ora, c'è da chiedersi quali Tribunali frequenta l'onorevole Brunetta. Per carità, ci sono i piccoli Tribunali dove questo può succedere, ma nella maggior parte dei casi è falso. Piuttosto il problema è un altro. Dato che il governo sta tagliando sempre più le risorse per la giustizia, sono anni che mancano i soldi per gli straordinari. SIcchè, in quei Tribunali dove c'è bbastanza personale di cancelleria, si organizzano dei turni per coprire la mattina e il pomeriggio; laddove questo non è possibile, si rinuncia a tenere le udienze di pomeriggio, per tenere aperti gli uffici.
Sul fatto che i giudici lavorino poco, mi piacerebbe che fosse così. Se si escludono i piccoli Tribunali con poco carico di lavoro (Aosta, Como, Bassano del Grappa, ecc.), gli altri sono talmente impegnati che, se ci sono i cancellieri, si tengono udienze anche fino alle 16 ed oltre. E anche a quell'ora il lavoro dei Pubblici Ministeri e dei giudici non è finito, in quanto i primi possono avere il turno notturno ed entrambi devono mettere mano ai fascicoli del giorno dopo per studiarseli. Cosa che spesso fanno a casa, perchè non sono molti i Tribunali che offrono la possibilità di un ufficio abbastanza comodo da poter lavorare. Non di rado, i giudici approfittano delle ore serali o del weekend per scrivere le motivazioni delle sentenze. Se questo è lavorare poco...
Quindi, come la tecnologia può aiutare tutto questo? Certo, ammesso che tutti i Tribunali e tutti gli avvocati fossero dotati della posta elettronica certificate (magari una che funziona, a differenza di quella messa a disposizione del Ministero per la Pubblica Amministrazione) si può risolvere quel problema. Ma per esempio come si convocano i testimoni? Mica possono costringere tutti gli individui ad avere la posta elettronica certificata. O la tecnologia mica può impedire ad un avvocato di far rinviare un processo, adducendo un legittimo impedimento proprio o dell'imputato. E così via.
Quindi, come si vede, quello che ieri è andato in onda è stato uno squallido spettacolo, per scaricare le colpe proprie su chi lavora. La realtà è che questo governo sta letteralmente distruggendo tutto il tessuto pubblico. Ospedali, pensioni, giustizia, sicurezza, welfare in generale: tutto è stato colpito da questo governo, sottraendogli cospicue risorse e licenziando personale. C'è la famosa storiella di quello che si lamenta che il proprio asino è morto, dopo che gli aveva insegnato a non mangiare. Vogliamo aspettare di raggiungere questo livello prima di protestare?
Legge delega sul fisco, cioè campa cavallo che la tassa cala. I tre bluff di Berlusconi
ROMA – Amministrative perse malamente, sconfitte in aula, referendum a rischio quorum alle porte, verifica parlamentare il prossimo 22 giugno, la Lega che scalpita e i Responsabili che sono sempre meno responsabili. Per Silvio Berlusconi non è un momento facile. Alcuni, persino all’interno del Pdl, cominciano a paventare l’ipotesi che il berlusconismo sia ai titoli di coda. Il Cavaliere, da navigato uomo della comunicazione qual è, tenta di riguadagnare terreno. Ci prova puntando su un tema caro e noto al popolo, la riduzione delle tasse. Un tasto che da sempre porta consensi quando toccato. Punta molto sulla riforma fiscale il presidente del consiglio, forse tutto. Conferenze stampa e titoloni, che tutti lo sappiano. Ma è un bluff. Berlusconi non ha le carte, ma deve per forza prendere il piatto. E allora decide di bluffare. Mossa obbligata al tavolo verde, azzardata in politica. Ma se il bluff viene scoperto, si perde tutto. Berlusconi annuncia la riforma che verrà, ma non dice e tace su alcuni punti. Sono tre i trucchi, non le bugie ma le mancate verità, del premier.
I quotidiani titolano “Berlusconi promette la riforma del fisco entro l’estate”, e in questo collaborano colpevolmente alla prima mancata verità. Il Cavaliere in realtà era stato più corretto, aveva parlato di “legge delega” per la riforma fiscale. Sperava probabilmente, in cuor suo, che tutti sentissero solo le parole “riforma fiscale”, e così è stato. Confidando che la definizione di legge delega, un tecnicismo perbacco, venisse omessa. Ma cos’è la legge delega? Nel diritto costituzionale italiano si chiama legge delega una legge approvata dal Parlamento che delega il Governo a esercitare la funzione legislativa su di un determinato oggetto. L’atto con forza di legge emanato dal Governo in base alla legge di delega è detto decreto legislativo (o anche decreto delegato, denominazione sovente usata nel testo della legge delega stessa). L’articolo 76 della Costituzione regola l’istituto della legge delega e del decreto legislativo. Essa è una legge ordinaria, approvata quindi dal Parlamento attraverso il normale iter procedurale (se così non fosse e, per esempio, fosse ammesso l’uso di decreti legge o la questione di fiducia, per il Governo sarebbe facile sostituirsi integralmente al Parlamento e di fatto legiferare senza controllo sostanziale) e conferisce la delega solo al governo inteso nella sua collegialità (ossia al Consiglio dei ministri, non al singolo ministro). Nella legge delega devono essere fissate obbligatoriamente alcune indicazioni minime, dette contenuti necessari: un oggetto definito; un tempo massimo entro il quale promulgare il decreto legislativo; una serie di principi e criteri direttivi ai quali il decreto legislativo deve attenersi; eventualmente, una serie di norme procedurali che impongono al Governo di sottoporre lo schema del decreto a determinati organi competenti (parere obbligatorio ma non vincolante). Oltre i 24 mesi di durata della delega, il parere delle competenti commissioni parlamentari diventa obbligatorio anche se non direttamente richiesto dal testo della legge. I soggetti interessati dalla legge delega e le parti istituzionali che ne hanno facoltà, possono sollevare quesito di incostituzionalità in Consulta per eccesso di delega, se il decreto del Governo eccede gli ambiti della legge-delega conferita dal Parlamento, in violazione dell’art. 77 della Costituzione.
Tradotto? Berlusconi praticamente annuncia il nulla. Annuncia che entro l’estate il Parlamento darà la delega al Governo di mettersi al lavoro su una riforma fiscale. Ma non ne definisce, e non potrebbe fare altrimenti, i tempi e i modi. Annuncia quindi che si lavorerà ad una riforma. Non è una gran novità l’idea che il Governo pensi ad una riforma, sarebbe in qualche modo il suo compito. E’ questa la prima mancata verità del Cavaliere, per carità, Berlusconi non è uomo da tecnicismi e non ci si aspetta da lui che spieghi la differenza tra legge delega e riforma. Ma almeno i giornalisti potrebbero assolvere a questo ruolo. E ricordarsi e ricordare che legge delega sul fisco è come dire: campa cavallo che la tassa cala.
Non parla mai poi il presidente del consiglio, e siamo alla seconda mancata verità, dell’“invarianza di gettito”, formula di tremontiano conio che lega tutte le eventuali riforme alla condizione che non muti il monte incassi dello Stato. In altre parole se le tasse diminuiscono, se diminuisce il prelievo fiscale sul reddito, bisogna recuperare quei denari in meno che entrano da altre parti. Per esempio mettendo mano a quel tesoro costituito dalle agevolazioni e dagli sgravi. Invarianza di gettito che è una condizione obbligatoria per la sopravvivenza dell’Italia, lo dicono i mercati e lo dice l’Europa, come lo dice anche un impegno esplicito, e guarda caso non citato, firmato da Berlusconi in persona. La riduzione delle tasse è una pia iniziativa, ma senza l’invarianza di gettito l’orizzonte diventa quello greco. Se si riducono le tasse e non si recuperano i soldi da altre parti la nostra economia rischia, concretamente, di finire gambe all’aria. E Berlusconi glissa simpaticamente su questo aspetto. Parlarne non è comunicativamente vincente, e quindi silenzio. Tradotto? Meno Irpef, le prime due aliquote più basse o addirittura tre nuove aliquote, 20, 30, e 40 per cento si finanziano con più Iva e con tagli alle attuali esenzioni fiscali, ad esempio la tassazione più bassa per l’acquisto della prima casa, le detrazioni per la retta della mensa scolastica, i sussidi all’agricoltura o allo sport…Sai che Babele, che rissa se Berlusconi avesse detto “invarianza di gettito” e qualche giornalista gli avesse domandato di fare qualche esempio.
La terza, e ultima per il momento, mancata verità, o trucco comunicativo del Cavaliere riguarda infine il “close to balance”. Usa l’inglese il premier per dire che l’Italia, entro i prossimi tre anni, deve sfiorare se non raggiungere il pareggio di bilancio. Non esterofilia o anglofilia in questo caso, e nemmeno citazione forbita. Ma semplice desiderio di non farsi capire da tutti e confondere un po’ le acque. Dice Berlusconi che per questo obiettivo l’Italia farà ritocchi sul Pil nella misura dello 0,7 per cento, cioè circa 8 miliardi di euro. Ma non dice, né il presidente del consiglio né nessun altro, che con questa cifra il pareggio rimane un miraggio. Tanto più che la cifra detta non vale per il 2011, anno in corso, né per il 2012, anno probabilmente d’elezioni o comunque preelettorale. Anno in cui il cittadino elettore non va turbato. Quindi 0,7 del Pil per il 2013 e 2014, cioè 15/20 miliardi di euro. Ma matematica dice che per il pareggio del deficit, impegno già firmato da Berlusconi, di miliardi ce ne vogliono il doppio. Il pareggio del deficit rimane a queste condizioni impraticabile, anche se nella realtà dei fatti è una condizione obbligatoria per il nostro Paese.
Berlusconi è uomo della comunicazione, è sempre risorto anche e soprattutto grazie alle promesse fatte in pompa magna e poi solo saltuariamente realizzate. La formula a cui si affida per uscire dall’angolo in cui si trova è la stessa di sempre. Signori, non c’è trucco e non c’è inganno… Ma guardando attentamente le mani del prestigiatore il trucco si trova sempre. E in questo caso i trucchi sono tre.
ROMA - Rai3 si configura sempre più come «un’enclave separata dal resto dell’offerta aziendale, orientata quasi completamente su uno specifico target politico-culturale e con una programmazione che sembra spesso ispirata a logiche da tifoseria, a volte pro ed altre contro». La bomba l’ha innescata ufficialmente Antonio Verro, consigliere Rai di maggioranza. Ieri il cda si è spaccato sul serio (cinque gli assenti, tutti di centro-destra) e l’approvazione dei palinsesti autunnali è saltata.
Il problema sono i programmi di punta della terza rete (ma anche la casella vuota di Annozero su Raidue sostituita con «spazio culturale»), con i contratti dei conduttori Fazio, Floris, Gabanelli, Dandini ancora non rinnovati. Del rischio di un «grave intralcio alla operatività dell’azienda» ha parlato il presidente Paolo Garimberti, mentre il dg Lorenza Lei ha definito urgente e necessaria l’approvazione dei programmi e serra i ranghi per affrontare al meglio il momento delicato. Insomma, è muro contro muro tra maggioranza e opposizione. A rimetterci è lo spettatore, quello che dovrebbe essere il servizio pubblico. La presentazione alla Sipra (gli inserzionisti) è fissata il 20 giugno, il tempo è pochissimo. «Aver impedito il voto sui palinsesti da consegnare alla Sipra per la presentazione agli investitori pubblicitari è stata una decisione irresponsabile», hanno scritto i consiglieri di opposizione Giorgio Van Straten, Nino Rizzo Nervo e Rodolfo De Laurentiis, aggiungendo che la scelta dei consiglieri di maggioranza «rischia di provocare irrimediabili danni economici all’azienda». Paolo Ruffini è stato chiaro: «Come direttore di Rai3, sento il dovere, nell’interesse dell’azienda, di ricordare come Rai3 sia l’unica rete generalista fra le sei di Rai e Mediaset, a crescere in ascolti sia nel prime time che nel day time». Intanto, è arrivata la minaccia di sciopero l’Usigrai, mentre l’Adrai ha invocato l’intervento dei presidenti delle Camere e del presidente della Commissione di Vigilanza Sergio Zavoli. Quest’ultimo, invocando il confronto contro lo smantellamento del servizio pubblico, ha annunciato un’audizione in Vigilanza del presidente e del dg Rai.
giovedì 9 giugno 2011
"Condividiamo pienamente la richiesta di Fiat di avere un sistema in cui i contratti stipulati con una maggioranza dei lavoratori siano pienamente vincolanti per tutte le organizzazioni presenti in azienda. Come noto, siamo anzi pronti a definire un accordo in questo senso con le organizzazioni sindacali che possa essere poi recepito dal legislatore. Sarebbe un passaggio importante nella modernizzazione delle relazioni industriali, cui contiamo di lavorare in piena sintonia con Fiat", aggiunge il vice presidente.
"Alla luce di queste considerazioni, riteniamo che l'appartenenza a Confindustria non indebolisca Fiat, anzi la rafforzi. Non vediamo controindicazioni, nè sul piano delle strategie di fondo nè sotto il profilo strettamente tecnico-giuridico. Al riguardo, facciamo notare che la Fiat, come qualunque altra azienda, può essere associata a Confindustria pur avendo un proprio contratto aziendale sostitutivo rispetto al Contratto collettivo nazionale di lavoro. Non lo impedisce nessuna regola interna al sistema Confindustria. Nè lo può impedire - conclude Bombassei - la legge o la giurisprudenza, dal momento che Confindustria è un'associazione del tutto volontaria".
"Confindustria finalmente getta le maschera: vuole cancellare i contratti nazionali nel nostro paese, e chiede una legge per permettere ad un'azienda di farlo. Vuole insomma un regolamento delle libertà": è questo il commento del segretario generale della Fiom Maurizio Landini alle affermazioni di Bombassei,
"Bombassei sta offrendo a Marchionne una cosa che sa che non vale, e chiede addirittura una legge che ora non esiste. Quindi chiede in sostanza di non rispettare le leggi attuali", spiega Landini aggiungendo che "se Bombassei pensa che ognuno può fare come gli pare, mi sembra che vada contro gli interessi degli associati di Confindustria e anche contro gli interessi del Paese".
Concetto
Il principio di suffragio universale è correlato alle idee di volontà generale e di rappresentanza politica promosse da Jean-Jacques Rousseau : in base a questi principi, si elabora l'assunto in base al quale la rappresentanza politica trova legittimazione nella propria volontarietà.
I cittadini, nei moderni Stati democratici, sono alla base del sistema politico e col suffragio universale viene eletto l'organo legislativo di uno Stato; nelle repubbliche presidenziali, ciò avviene anche per l'elezione del Capo dello Stato.
Il principio del suffragio universale maschile è stato introdotto per la prima volta durante la rivoluzione francese da un "comitato di salute pubblica"
Generalmente viene considerata la data del 1893, in cui la Nuova Zelanda introdusse il suffragio universale, quindi maschile e femminile, quale primo Stato al mondo.
L'Europa si mosse su questa strada nel corso dell'Ottocento: da un suffragio ristretto - per la maggior parte dei casi attribuito ad una porzione della popolazione in base a criteri censitari o relativi all'istruzione - si passò via via al suffragio universale. Si ricorda, inoltre, che la Francia nel 1792, dopo la Rivoluzione francese, introdusse il suffragio universale anche se per un periodo di tempo brevissimo. Solo dal 1946 sarà effettivo e stabile.
Infine, si ricorda che nella penisola italiana, ma solo nel Granducato di Toscana nel 1848 si concesse il suffragio ristretto maschile e femminile: unico Stato che lo concedeva allora, quantunque limitato alle classi abbienti.
[modifica] Negli Stati Uniti d'America
1776 Suffragio universale maschile con diverse restrizioni.
1869 Voto alle donne nel Wyoming.
1918 Suffragio universale, comprese le donne.
Nel 1965 il Voting Rights Act ha proibito l'accertamento di un grado minimo di cultura e di alfabetizzazione quale prerequisito per l'accesso al voto.
È nel 1966 che due sentenze della Corte Suprema ribadiscono l'incostituzionaltà sia le prove per accertare i gradi di cultura e di alfabetizzazione per l'ammissione ai diritti politici, sia i requisiti che chiedevano il pagamento di una tassa per essere ammessi al diritto di voto.
Le ultime discriminazioni, che si opponevano all'esercizio pieno del suffragio universale, sono scomparse in America soltanto negli anni settanta del Novecento.
[modifica] Nel Regno Unito
È uno tra i primi paesi europei ad attuare riforme elettorali tendenti a universalizzare il voto:
1832 Reform Act: voto in base a criteri censitari.
1867 Con una riforma si abbassa il censo con il quale si può votare (arrivano al voto anche alcuni operai).
1884-1885 Nuove riforme estensive, il suffragio è solo maschile.
1918 suffragio universale (maschile e femminile, ma per le donne solo dopo aver compiuto i 30 anni d'età).
1928 suffragio femminile (tutte le donne)
[modifica] In Francia
A partire dalla Rivoluzione francese del 1789, si verificano molte insurrezioni e manifestazioni popolari per ottenere per tutti il diritto al voto, non solo nel rispetto dei principi della rivoluzione francese, ma anche per il sentimento patriottico e nazionalistico che sarebbe risultato incrementato e cementato dalla partecipazione attiva di tutta la popolazione.
1792 Breve periodo di suffragio universale, maschile e femminile, durante la rivoluzione francese (evento occasionale non ripetuto in seguito fino al 1946).
1848 Suffragio universale maschile.
1946 Suffragio universale (maschile e femminile).
[modifica] In Italia
Il percorso del suffragio in Italia parte temporalmente da quando la nazione non era ancora uno stato unitario.
1848 Legge 680\1848 (elettorale piemontese su criteri censitari). Fu riconosciuto potere di voto agli uomini maggiori di 25 anni che sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte. Numericamente questo portava il 2% della popolazione italiana alle urne.
1860 Legge 31 ottobre 1850, n.4385. Realizzata sulla base della legge elettorale dello Stato Piemontese, stabilisce il diritto di voto per i cittadini maggiorenni alfabeti, in possesso dei diritti civili e politici, che pagassero un censo di imposte dirette non inferiori a 40 lire. La norma delimitò il corpo elettorale, alle prime elezioni politiche italiane del 1861, in 418.696 cittadini, pari all'1,89% dei 22.182.377 abitanti.[1]
1872 La sinistra parlamentare abbassa la soglia della maturità elettorale da 25 a 21 anni. Ammette inoltre al voto tutti i cittadini in grado di leggere e scrivere, ma in una situazione di analfabetismo come quella italiana, la percentuale di elettori sulla popolazione si alza in maniera poco significativa.
1882 Suffragio allargato con la legge Zanardelli del 24 settembre. Viene riconosciuto il diritto di voto ai maschi maggiorenni (all'epoca la maggiore età veniva raggiunta a 21 anni) alfabeti che versano imposte dirette per una cifra annua di 19,8 lire. Il corpo elettorale viene più che triplicato.
1912 La legge promulgata da Giovanni Giolitti stabilisce un suffragio quasi universale per gli uomini: si prevede infatti che tutti gli uomini capaci di leggere e scrivere con almeno 21 anni possano votare, mentre gli analfabeti possono votare a partire dai 30 anni. Inoltre il voto viene esteso a tutti i cittadini che abbiano già prestato servizio militare.
1919 Viene modificata la legge precedente: possono votare tutti i cittadini maschi di almeno 21 anni di età, viene quindi abolita la distinzione per gli analfabeti. Possono inoltre votare anche tutti i minorenni che abbiano prestato servizio militare nei corpi mobilitati. Il sistema proporzionale sostituisce quello maggioritario a due turni. Il corpo elettorale viene portato a 11 milioni di persone.
1945 Il 31 gennaio il Consiglio dei Ministri a presidenza Ivanoe Bonomi emanò un decreto (decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n.23, Estensione alle donne del diritto di voto[2]).
1946 Voto universale per uomini e donne che abbiano compiuto la maggiore età (21 anni inizialmente, e 18 anni a partire dal 1975). La prima occasione di voto - la prima in assoluto per le donne in Italia - sono le elezioni amministrative che si tengono in tutta la penisola fra il marzo e l'aprile del 1946; subito dopo, il 2 giugno 1946, gli italiani sono nuovamente chiamati alle urne per il referendum istituzionale tra Monarchia o Repubblica e per l'elezione dell'Assemblea costituente
ROMA - Voleva partecipare ad ogni costo all'incontro in forma privata dei 130 uomini più potenti della terra riuniti nel Club di Bilderberg, tenutosi oggi a Saint Moritz, in Svizzera. L'europarlamentare della Lega Mario Borghezio, però, non è riuscito a far valere le sue ragioni e quando ha chiesto di assistere alla riunione esibendo il suo passaporto e il tesserino da parlamentare europeo è stato allontanato in malo modo dalla Servetta House, dove siedono in riunione quelli che il deputato della Lega definisce «i padroni del mondo».
«Sono stato assistito dalla polizia elvetica ma il trattamento subito dalla sicurezza dell'incontro è stato brutale. Ho intenzione di presentare una denuncia. E il trattamento subito, chiedevo solo di assistere, mi conferma che questa è una riunione molto importante chiamata a prendere decisioni rilevanti senza alcun controllo popolare. È evidente che il Club di Bildelberg è una società segreta, come pensano in tanti di cui meno si sa e meglio è».
«La Polizia svizzera ci ha messi in stato di fermo e ci sta portando in caserma»: lo dice all'ANSA l'eurodeputato della Lega Mario Borghezio spiegando di avere «il naso che sanguina». Sporgerò una bella denuncia alle autorità svizzere«, ha concluso Borghezio. Il Gruppo Bilderberg (detto anche conferenza Bilderberg o club Bilderberg) è un incontro annuale per inviti, non ufficiale, di circa 130 partecipanti, la maggior parte dei quali sono personalità influenti in campo economico, politico e bancario. I partecipanti trattano una grande varietà di temi globali, economici, militari e politici.
The man who screwed an entire country
MILANO -«The man who screwed an entire country» l' uomo che ha fottuto un intero Paese». L'Economist torna ad attaccare Silvio Berlusconi bocciandone senza appello la politica di governo. Il presidente del Consiglio italiano è tornato in copertina del settimanale britannico in uscita venerdì, a otto anni dal celeberrimo «unfit to lead Italy», inadatto a governare l'Italia, e a cinque dall'altrettanto polemico «E' tempo di licenziarlo». L'occasione di quest'ultima «cover story» è la pubblicazione di uno speciale di 16 pagine sull'Italia realizzato per l'anniversario dei 150 anni. L'analisi di John Prideaux, autore del rapporto, lascia emergere un Paese fermo che paga con la «crescita zero» le mancate riforme. «L'Italia ha tutte le cose che le servono per ripartire, quello che serve è un cambio di governo».
L'EDITORIALE - «Nonostante i suoi successi personali Berlusconi si è rivelato tre volte un disastro come leader nazionale», si legge nell'editoriale. Il primo disastro è la «saga» del bunga bunga e il secondo sono le vicende che hanno premier in Tribunale rispondere di frode, truffa contabile e corruzione. «I suoi difensori - spiega l'Economist - dicono che non è mai stato condannato ma questo non è vero. In molti casi si è arrivati a delle condanne ma queste sono state spazzate via» o per via della decorrenza dei termini o «in almeno due casi perchè Berlusconi stesso ha cambiato la legge a suo favore». «Ma il terzo difetto è di gran lunga il peggiore - continua l'Economist - e questo è il totale disinteresse per la condizione economica del paese. Forse perchè distratto dai suoi problemi legali, in nove anni come primo ministro non è stato in grado di trovare un rimedio o quanto meno di ammettere lo stato di grave debolezza economica dell'Italia. Il risultato è che si lascerà alle spalle un paese in grave difficoltà. La malattia dell'Italia non è quelle di tipo acuto; si tratta piuttosto di una malattia cronica, che pian piano mangia via la vitalità». Se fino ad ora, «grazie alla linea del rigore fiscale imposta dal ministro delle finanze Giulio Tremonti» l'Italia è riuscita e evitare di diventare la nuova vittima della speculazione dei mercati, questo non significa che la linea di credito sia infinita. Un'Italia stagnante e non riformata, con un debito pubblico ancorato attorno al 120% del pil, si ritroverebbe così esposta come il vero problema dell'eurozona. Il colpevole? «Berlusconi, che non ci sono dubbi, continuerebbe a sorridere» conclude l'Economist.