Non è più il tempo di «Riso amaro», quando le mondine alla Silvana Mangano cantavano «Sebben che siamo donne, paura non abbiamo». Non è nemmeno più il tempo di Giuseppe Di Vittorio, quando al teatro Apollo di Firenze (gennaio 1954) concludeva la prima «Conferenza nazionale della donna lavoratrice» prendendosela con quanti accusavano le donne di andare a lavorare solo per poter comprare «calze e rossetto». Esclamava il segretario della Cgil: «Noi vogliamo conquistare per tutte le donne del popolo anche le calze di seta!» Non è nemmeno il tempo in cui (sempre anni ‘50) un intellettuale d’avanguardia come Gianni Toti, direttore del «Lavoro», settimanale della Cgil, litigava con la redattrice Lietta Tornabuoni che detestava la tendenza a mettere «donnine» in copertina. Tutto è cambiato rispetto ad allora. Non c’è più la calata in massa delle mondine nelle risaie. Mentre le lavoratrici che producono proprio anche le calze, come le operaie dell’Omsa, si vedono portare via il lavoro ricollocato in Serbia. E si è allargata enormemente la platea delle donne lavoratrici. Una platea che ha combattuto strenuamente anche per avere una rappresentanza adeguata.
Così ora in Cgil sulla sedia occupata da Di Vittorio va a sedersi proprio una donna, Susanna Camusso. Epilogo di una lunga marcia nel cuore di un’organizzazione che pure è considerata un tempio del conservatorismo.
Certo all’inizio, nei gruppi dirigenti del principale sindacato italiano, c’erano solo maschi. Dalla data di nascita (1906) sono trascorsi oltre 70 anni prima che una donna, Donatella Turtura, fosse chiamata da Luciamo Lama a far parte della segreteria confederale. Un salto di qualità che aveva però visto altre donne conquistare un primato nelle categorie. Così Teresa Noce segretaria dei tessili nel 1947. Un’industria prettamente femminile ma dove i primi segretari erano stati (1945) tre uomini. Altre donne importanti, sempre nei tessili, erano state Lina Fibbi e Nella Marcellino (chiamata poi a dirigere gli alimentaristi).
Oggi le donne in Cgil sono circa il 50% degli iscritti, il 46% nei lavoratori attivi. Hanno circa la metà dei delegati nelle assemblee e nei comitati direttivi. Sono alla guida di numerose Camere del lavoro e strutture regionali nonché di categorie e organismi nazionali (pensionati con Carla Cantone, funzione pubblica con Rossana Dettori, agroindustria con Stefania Crogi, lavoro atipico e precario con Filomena Trizio, l’Inca con Morena Piccinini). Dopo l’esperienza dei coordinamenti femminili (e prima delle commissioni femminili e dell’ufficio lavoratrici) sono state adottate le cosiddette quote. Prima nella funzione pubblica come ha ricordato Valeria Fedeli, poi nel 1986, sotto, l’egida del segretario generale Antonio Pizzinato, con il 20% dei posti assegnati in comitati direttivi e segreterie. Ed ecco il balzo nella segreteria confederale diretta da Bruno Trentin nel 1990 di tre esponenti del mondo femminile: Maria Chiara Bisogni, Anna Carli, Fiorella Farinelli. Con Sergio Cofferati il raddoppio con sei donne: Carla Cantone, Titti Di Salvo, Nicoletta Rocchi, Marigia Maulucci, Morena Piccinini, Paola Agnello. Ora, l’ascesa di Susanna Camusso. Siamo alla scalata finale.
È possibile ritrovare nel tempo l’impronta continua del movimento sindacale femminile e delle sue protagoniste. Alcune delle quali poco conosciute come Argentina Altobelli (tra i fondatori della Federazione nazionale dei lavoratori della terra), l’operaia Abele Bei (sindacato tabacchine), la maestra Clementina Galigaris, la sarta Rina Picolato.
Le donne c’erano «ma invisibili» ha scritto Maria Luisa Righi (un saggio nei volumi «Mondi femminili in cento anni di sindacato», Ediesse). L’opinione pubblica sentiva parlare o leggeva di «una massa indistinta di lavoratori, classe operaia, uniforme e asessuata». Solo attraverso le fotografie si vedranno «tante ragazze, le gonne corte e i capelli curati, sorridenti e festanti per le vittorie conseguite».
Generazioni e generazioni di lavoratrici e dirigenti promotrici di battaglie sindacali per il diritto al lavoro delle donne, per la tutela della maternità, per la tutela dell’infanzia, per la parità salariale tra donne e uomini a parità di mansione e di lavoro. Alcune le ho conosciute personalmente come la Donatella Turtura incontrata a Genova nel 1987 mentre affrontava senza tremori un’assemblea infuocata dei «camalli» di Paride Batini molto polemici con la Cgil. O Nella Marcellino che mi ha fatto leggere in anteprima un suo libro di memorie («Le tre vite di Nella», a cura di Maria Luisa Righi, edizioni Sipiel) dove racconta gli scioperi del ’43 e la conquista del diritto d’assemblea nelle fabbriche alimentari nel 1968. Un ruolo decisivo di queste donne anche per leggi come quella sul divorzio nel 1970, sulla tutela delle lavoratrici madri e per gli asili nido nel 1971, sulla riforma del diritto di famiglia nel 1975 e sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza nel 1978. I benedetti anni 70.
Una presenza determinante. Eppure oggi, come ha avuto modo di annotare proprio Susanna Camusso per molti il metro è ancora quello per cui una donna è brava «se ha le palle». Ovverosia se assomiglia al maschio. Speriamo che oggi non si aspettino solo uno sforzo mascolino, quanti guardano con malizie e sospetti alle scelte della nuova Cgil del dopo Epifani. Sarebbe auspicabile invece, una strategia all’altezza dei tempi, in un paese quasi allo sfascio, senza governo e senza politica, e quindi spesso addirittura senza interlocutori contro cui scioperare. Magari avendo sott’occhio un altro verso di quell’antica canzone delle mondine: «E la libertà non viene, perché non c’è l’unione».
mercoledì 3 novembre 2010
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