Ebbene sì, in Cina stanno nascendo i «nuovi
operai». Sembra un paradosso storico, per
una Repubblica popolare nata dalla rivoluzione
di Mao e ancora oggi governata (bestia
rarissima) da un Partito comunista, non solo
sopravvissuto al grande crollo dell’89 ma trasformatosi
nell’artefice di riforme che hanno fatto
diventare la Cina la seconda economia mondiale.
Un altro paradosso, che però spiega
bene il primo.
Per giungere a tali vette la Rpc è
diventata la «fabbrica del mondo» attraverso
un percorso senza precedenti che
ha scomposto radicalmente i connotati
sociali del paese. La vecchia classe operaia,
un tempo osannata e protetta in
quanto «padrona» della Cina, è stata
smantellata e ridimensionata, di pari
passo con le ristrutturazioni delle fabbriche
statali, per essere sostituita da un
esercito di nongmingong, contadini
lavoratori. In poco meno di 20 anni, 240
milioni di cinesi hanno lasciato le campagne,
una migrazione dalle proporzioni
bibliche avvenuta con una velocità
che non ha uguali nella storia umana.
Nessuno li ha costretti. A spingerli era
solo il bisogno di riscossa da un destino di privazioni,
che le riforme avevano reso anche più
duro, e il sogno di fare parte di una ricchezza
nuova, un tempo stigmatizzata e oggi incoraggiata
dai nuovi simboli dell’immaginario collettivo.
L’ingegneria sociale dettata dall’imperativo
dello sviluppo ha creato così una nuova classe di
sradicati dalla propria terra, sospesi nelle propria
identità perché mai riconosciuti, nemmeno nei
diritti, come gongren (operai a parte intera) ma
solo come nongmingong (contadini lavoratori).
Flessibili oltre misura, sfruttabili oltre ogni limite,
chiusi nei dormitori, allineati docilmente lungo
catene di montaggio per 12 ore al giorno, hanno
creato la ricchezza di un paese che solo oggi ha
cominciato a porsi il problema di redistribuirla in
modo meno gretto. Lo detta l’opportunità politica
di sopravvivenza del sistema, perché lo squilibrio
sociale è diventato insostenibile e l’economia
non potrà continuare a crescere se non si
modifica il suo asse di sviluppo. Ma lo impone
anche la consapevolezza dei «nuovi operai» che
la loro condizione deve cambiare. I 30 anni di
«riforme e aperture» hanno infatti indotto un
cambiamento antropologico accelerato nelle
nuove generazioni e i nongmingong ne costituiscono
la punta più avanzata.
Lo spiegano bene gli articoli del «Nanfeng
Chuang» (Rivista del Sud) che abbiamo scelto di
pubblicare, e un ringraziamento particolare va a
Diego Gullotta che li ha segnalati e ne ha
curato la traduzione. La rivista cinese è un
quindicinale di politica e di attualità che
sin dalla sua nascita, nel 1985, ha rivolto
un’attenzione particolare ai cambiamenti
della società e ai nodi più intricati della
trasformazione cinese. In ottobre, la sua
attenzione si è rivolta ai «nuovi operai»,
quelli nati negli anni 80 e 90 che stanno
cambiando valenza alla questione operaia
in Cina. L’ondata di scioperi partita nella
primavera del 2010 dalla Honda di
Foshan e diffusasi rapidamente in altre
aree del paese, ha rivelato di colpo al
mondo che «la fabbrica del mondo» sta
mutando i propri connotati. Comprenderne
le dinamiche è essenziale anche
per il nostro destino di occidentali. La
consapevolezza dei giovani operai è
ancora in embrione, ma ci sono oggi in Cina
organizzazioni che silenziosamente lavorano per
farla crescere e indirizzarla, oltre l’insofferenza,
verso una coscienza politica. Il sindacato ufficiale
cinese non è fra queste, e la sua ambigua natura
costituisce uno dei problemi che i lavoratori
cinesi devono affrontare.
sabato 9 febbraio 2013
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