Ieri il governo, i sindacati e le associazioni che rappresentano le piccole, medie e grandi imprese hanno cominciato un negoziato sulla riforma del mercato del lavoro, che il presidente del Consiglio Mario Monti intende portare a termine nell’arco di tre o quattro settimane. I giornali di oggi sono praticamente unanimi nel considerare l’accordo di ieri “una falsa partenza” e le parti si rivedranno la prossima settimana. Il principale punto critico emerso ieri è la proposta del ministro Elsa Fornero di riformare gli ammortizzatori sociali e soprattutto la cassa integrazione.
Che cos’è la cassa integrazione
La cassa integrazione è un ammortizzatore sociale – erogato dall’INPS e previsto dalla legge – a favore dei lavoratori che lavorano a orario ridotto o non lavorano del tutto a causa di un momento di difficoltà della loro azienda. Le grandi aziende possono farvi ricorso durante questi momenti di difficoltà, e l’INPS allora integra lo stipendio dei dipendenti per una parte delle ore che non sono più pagate perché non più ore di lavoro. La cassa integrazione si può applicare “a zero ore”, in caso di sospensione totale del lavoro, o a sospensione parziale. Le imprese possono chiedere la cassa integrazione per via di eventi congiunturali, crisi economiche o del mercato non direttamente imputabili agli operai o all’imprenditore: può durare al massimo 52 settimane in due anni e non più di 13 settimane consecutive. In questi casi si parla di cassa integrazione ordinaria (CIG). La cassa integrazione straordinaria (CIGS) è invece accessibile solo alle aziende con più di 15 lavoratori e si può attivare nei casi di ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione aziendale, e si può applicare anche ai lavoratori di imprese fallite o in corso di fallimento, e non solo a quelle che attraversano un momentaneo periodo di difficoltà. Esistono dei limiti temporali per il ricorso alla CIGS, aggirabili attraverso deroghe, ma comunque non si può andare oltre i 36 mesi in 5 anni.
Chi non può accedere alla cassa integrazione
Le piccole imprese non hanno accesso a questo strumento, e quindi in caso di chiusura dell’impresa i dipendenti hanno diritto solo a un’indennità di disoccupazione, di durata molto più breve rispetto alla cassa integrazione. “Non tutti i disoccupati riescono però a ottenere questa prestazione”, scrive oggi Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera, “soprattutto per mancanza di requisiti assicurativi: col risultato che l’Italia ha il record europeo di disoccupati privi di qualsiasi tutela”. Inoltre, come per tutto il resto del mercato del lavoro, valgono sempre le conseguenze del dualismo: la cassa integrazione non si applica alla gran parte dei lavoratori precari e dei collaboratori, i cui contratti semplicemente non vengono rinnovati in caso di difficoltà economiche e che non ricevono nemmeno indennità di disoccupazione. Dal 2008 a oggi la cassa integrazione è stata l’ammortizzatore sociale più usato per fronteggiare la crisi in Italia, e attraverso una serie di deroghe il governo Berlusconi ne allargò l’accesso anche alle piccole imprese e ad alcune tipologie di lavoratori atipici. “Nessun Paese europeo ha investito così tanto durante la crisi su questo tipo di schema e così poco sulle tradizionali indennità di disoccupazione”.
Il problema con la cassa integrazione
Lo spiega sempre Ferrera sul Corriere. Il sistema ha funzionato in molte occasioni ma ha grandi difetti: costa molto, “congela l’occupazione esistente anche in aziende o settori senza prospettive di recupero”, è stata usata spesso come ponte verso il prepensionamento, tradendo la sua missione originaria, e lascia scoperti molti lavoratori, peraltro sempre di più. Dall’altro lato, e questa è l’osservazione comune a sindacati e Confindustria, si tratta di uno strumento che potrebbe rivelarsi indispensabile durante il prossimo anno, che con la recessione rischia di mettere in difficoltà diverse grandi imprese, e quindi questo non è il momento di rinunciarci.
Che cosa propone il governo
Elsa Fornero ha proposto di mantenere soltanto la cassa integrazione ordinaria, quella che possono attivare le imprese che attraversano momenti passeggeri e congiunturali di difficoltà, come avviene in Europa. E sostituire quindi la cassa integrazione straordinaria, quella attivabile in caso di chiusura dell’azienda, con un altro pacchetto di ammortizzatori sociali, slegati dal legame del lavoratore col suo ex posto di lavoro. I lavoratori otterrebbero in questo caso un’indennità risarcitoria e un sussidio di disoccupazione rafforzato: il governo ha detto di voler introdurre un “reddito minimo”, pur senza individuare dove prendere le risorse. L’eliminazione della cassa integrazione straordinaria ne darebbe un bel po’ ma probabilmente non abbastanza, e bisognerebbe reperire una parte di risorse altrove.
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