lunedì 20 maggio 2013
domenica 19 maggio 2013
venerdì 3 maggio 2013
ECCO COSA VUOLE VERAMENTE DA NOI LA GERMANIA
Qualche settimana fa, un po’ per caso e un po’ per
curiosità, sono venuto a conoscenza di una notizia che mi ha parecchio
colpito: l’associazione Eures Germania in accordo con quella italiana
aveva organizzato un lungo tour in giro per la penisola per reclutare
giovani lavoratori qualificati. Il suggestivo nome di questa selezione a
domicilio era “Job of my life” e ha toccato le più importanti città
italiane: Roma, Napoli, Milano, Bologna, Torino, Genova, Bari, Lecce,
Padova, Verona, Catania. Durante il giro sono state raccolte circa 6.300
candidature, in particolare di ingegneri e tecnici specializzati fra i
18-35 anni, da proporre alle maggiori aziende tedesche. Il reclutamento
non garantiva il posto di lavoro fisso ma solo la promessa che anche in
caso di momentanea bocciatura i ragazzi sarebbero stati inseriti in un
database, in attesa della fatidica chiamata dalla Germania. Analoghi
programmi di selezione di giovani disoccupati di elevata formazione e
specializzazione sono stati organizzati pure in Irlanda, Spagna,
Portogallo. Ovvero nei paesi che sono stati più danneggiati
dall’atteggiamento competitivo della Germania, che ha saputo meglio
sfruttare le dinamiche di squilibrio commerciale e finanziario messe in
moto dalla moneta unica.
Intendiamoci, questi progetti di cooperazione internazionale e di scambio di competenze e conoscenze sono molto interessanti ed efficaci, ma solo quando presentano caratteristiche di reciprocità, multilateralità e non sono a senso unico: dai paesi poveri e disastrati verso l’unica nazione ricca e vincente, e mai viceversa. Perché, allo stesso modo di ciò che accade con lo scambio delle merci e dei capitali, si verrebbe a creare all’interno dell’eurozona uno sbilanciamento di forza lavoro qualificata a vantaggio dell’unico grande paese in surplus e a svantaggio di quelli in deficit. Condannando in pratica questi ultimi alla regressione produttiva e alla marginalizzazione nei settori a scarso valore aggiunto e innovativo. E questa è solo l’ultima sfaccettatura del saccheggio in corso, che sta avvenendo in tempo reale, sotto i nostri occhi. Mentre noi siamo impegnati ad assistere alla seconda elezione di re Giorgio Napolitano II e all’imminente insediamento del prossimo governo Amato, personaggi cioè che sono stati tra i principali artefici della distruzione del tessuto produttivo e sociale italiano, fin dai tempi dell’ingresso dell’Italia nello SME del 1979, e oggi hanno il compito specifico di difendere e tutelare la classe politica corresponsabile del disastro. Gli italiani sono talmente illusi e imbesuiti da credere che coloro che hanno “scientemente” spinto il paese verso il baratro siano gli stessi a farlo riemergere dagli abissi: misteri della fede. Dove arriva l’idolatria mistica, la ragione per forza di cose deve arretrare.
Grazie ai benefici acquisiti con l’introduzione dell’euro, che annullando la normale fluttuazione dei tassi di cambio ha cancellato di colpo l’unico strumento di difesa delle economie deboli nei confronti di quella forte, la Germania ha di fatto stravolto gli equilibri politici-economici fino ad allora esistenti in Europa, diventando l’unico paese egemone in mezzo ad una serie di paesi cuscinetto o colonie. E ben consci di questo ruolo, i tedeschi non hanno più alcun imbarazzo e pudore a comportarsi come un paese di conquistatori ed invasori: in attesa di mettere le mani sugli ultimi pezzi pregiati aziendali e patrimoniali dell’Italia, la Germania si porta via le nostre migliori competenze tecniche disponibili, formate grazie ai sacrifici delle famiglie italiane e agli investimenti nel nostro sistema scolastico statale o privato. Noi seminiamo e i tedeschi raccolgono i frutti. E c’è una ragione precisa che spinge i tedeschi alla ricerca disperata di nuova manodopera qualificata: mentre nell’eurozona continua ad aumentare il numero di persone in età da lavoro, in Germania invece diminuisce progressivamente. Come si può vedere nel grafico sotto, la forza lavoro della Germania fra i 15 e i 64 anni si è ridotta del 2% negli ultimi undici anni, al contrario della media dell’intera zona euro, dove è aumentata del 7%.
Questo potrebbe anche essere uno dei motivi che spiega i livelli record di bassa disoccupazione della Germania, rispetto alla crescita che si registra nell’eurozona, dove gli ultimi dati confermano la salita del tasso di disoccupazione fino al 12%. Da notare poi che i tedeschi non cercano manodopera generica, perché questa può essere reperita a buon mercato tra le folte schiere degli immigrati che arrivano dall’Est Europa, dalla Turchia o dall’Africa, ma persone molto istruite e specializzate, che in qualunque paese rappresentano il serbatoio principale da cui partire per costruire la futura classe imprenditoriale e dirigente: un paese senza quadri e competenze è un paese senza futuro. E questo la Germania pare saperlo bene, mentre l'Italia crede ancora che costringere i nostri migliori cervelli alla fuga e tenersi la feccia sia una mossa furba che ci concede onere e lustro in tutto il mondo. Ripetiamo che mandare i nostri ragazzi in Germania a farsi le ossa e l’esperienza potrebbe essere un grande vantaggio per noi in un’ottica di lungo periodo (sperando che un giorno l’Italia riesca ad uscire dai pantani e una parte di questi ragazzi possa rientrare in patria con un notevole bagaglio di conoscenze e know how), ma in una fase di crisi come questa risulta solo l’ultimo affronto che i tedeschi hanno fatto al presunto spirito di cooperazione e collaborazione che “dovrebbe” animare questa strampalata unione monetaria. Invece di aiutare la ripresa delle aziende italiane, la Germania non solo ostacola tutti i piani di politica economica espansiva che potrebbero favorire la crescita, ma preferisce addirittura dare il colpo di grazia agli storici concorrenti privandoli della linfa vitale che assicura l’operosità, il rinnovamento, la creatività e il ricambio generazionale delle nostre aziende.
Quelli che ancora credono al sogno europeo, alla chimera degli Stati Uniti d’Europa che fino ad oggi è servita a confondere e depistare gli allocchi di turno, dovrebbero dare un’occhiata alla lunga lista di svendite di pezzi importanti della nostra industria nazionale che si è ampliata senza sosta in questi ultimi anni, per capire meglio la portata della catastrofe economica in cui ci siamo volontariamente impelagati. Nel nome del liberismo selvaggio e dell’apertura incondizionata ai “mercati”, di indirizzi cioè di politica economica più che mai discutibili e anacronistici che in misura così sconsiderata e scriteriata hanno contagiato soltanto i paesi dell’eurozona, mentre il resto del mondo si è guardato bene da seguire alla lettera i dettami di questa scellerata dottrina accademica-teologica (i cui dogmi, come abbiamo visto, sono basati perlopiù da manipolazioni e strumentalizzazioni dei dati reali) e ha adottato misure più o meno protezionistiche per difendere il proprio tessuto economico nazionale. Curiosa poi la circostanza che mentre i francesi hanno fatto incetta di tutto ciò che si poteva razzolare in Italia, dalla grande distribuzione all’energia, i tedeschi si sono limitati ad acquisire marchi di prestigio (come per esempio Ducati) dall’elevato grado di innovazione tecnologica, dalla diffusa riconoscibilità a livello internazionale e dalla spiccata tendenza a penetrare nei mercati esteri. Strategia questa che conferma ciò che abbiamo prima detto: la Germania si propone di diventare l’unico polo industriale sviluppato d’Europa, dedicato principalmente alle esportazioni, lasciando ai paesi della periferia il compito di produrre a buon prezzo la componentistica e i beni a basso o nullo contenuto tecnologico (le viti e i bulloni, per intenderci).
Ma c’è un altro aspetto inquietante di tutta la vicenda: la svendita a prezzi di realizzo del patrimonio demaniale dello stato. Mentre in Italia i progetti del ministro Grilli di svendere e privatizzare circa 15-20 miliardi di beni pubblici all’anno (comprese le partecipazioni in aziende come Eni, Enel, Finmeccanica), procedono piuttosto a rilento, in Grecia i programmi vanno avanti rapidamente, a causa delle scadenze di rimborso delle rate dei piani di salvataggio garantiti dalla trojka FMI, BCE, UE. In tutto sono in vendita in questo momento circa 70.000 lotti, che comprendono distese di coste incontaminate, porti turistici, bagni termali, stazioni sciistiche e intere isole. Persino le quote del monopolio statale sul gioco d’azzardo sono in vendita al migliore offerente. L’isola di Rodi che per un terzo è ancora di proprietà dello stato è già per gran parte all’asta e a questa frenetica vendita ad incanto partecipano un po’ tutti, dall’emiro del Quatar, agli immancabili oligarchi russi fino ai soliti tedeschi e francesi. Si tratta in pratica di un’espropriazione forzosa di un pezzo di storia dell’antica e millenaria civiltà greca, che aveva insegnato alle generazioni successive cosa siano la democrazia, l’etica, i pilastri su cui si regge un buon governo. Parole al vento, stuprate dall’ingordigia del denaro e dal meccanismo infernale del debito senza fine, che si perpetua nel tempo senza alcuna soluzione di continuità.
Ma se Rodi è in procinto di essere colonizzata senza armi dagli invasori stranieri, Corfù è già di fatto un resort della famiglia di banchieri internazionali dei Rothschild, che ambisce a mettere le mani anche sullo storico palazzo reale dell’isola. A proposito di palazzi, la Grecia ha anche messo in vendita il colossale palazzo del Ministero della Cultura ad Atene, il quartier generale della polizia, gli edifici che ospitano i ministeri della salute, dell’istruzione, della giustizia e persino l’ambasciata greca in Holland Park a Londra, alla modica cifra di 22 milioni di sterline. Una pessima idea quella di coprire un debito a breve e medio termine con la vendita di beni immobiliari, su cui successivamente si dovrà pagare un flusso costante di affitti ai privati. Lo stato si priva a prezzi di svendita di un asset di proprietà, che a parte la manutenzione periodica non comporta alcun costo, aprendo le casse a delle spese immediate che molto probabilmente causeranno la nascita di nuovo debito a breve e medio termine, che con il passare del tempo e l’alienazione di tutti i beni immobiliari e strumentali, sarà sempre più difficile da rimborsare. Una pazzia contabile e fiscale bella e buona, che però rappresenta uno dei principi fondanti di questa sciagurata e disgraziata eurozona: le privatizzazioni sono infatti un prerequisito essenziale per ricevere i fondi di salvataggio, senza i quali la Grecia dovrebbe immediatamente dichiarare default e uscire dalla zona euro. Un ricatto in pieno stile mafioso, tipico delle peggiori e più spietate organizzazioni criminali.
Tuttavia, la propaganda mediatica e il terrorismo psicologico che agisce a pieno regime in Grecia impedisce ai cittadini di capire che proprio l’uscita dall’euro potrebbe essere l’unica via d’uscita da questa tragedia nazionale, che ha trasformato un intero paese una volta democratico in un emporio a cielo aperto. E nonostante tutti sappiano che le privatizzazioni non riusciranno a risolvere i problemi strutturali della Grecia, si continua ad andare avanti verso il calvario, con i profittatori e gli speculatori di tutto il mondo pronti a fare affari sulle spalle di un popolo ormai stremato ed impotente. L’esempio della privatizzazione dell’acqua è lampante: dopo che il governo greco ha privatizzato la rete idrica, la qualità del servizio è scesa notevolmente ed è aumentato il prezzo di erogazione. E proprio sull’onda di questo fallimento annunciato, i sindacati e i lavoratori stanno attuando una strenua ed eroica resistenza per evitare che venga privatizzata la società ferroviaria pubblica Hellenic e la principale compagnia statale di produzione e distribuzione di energia elettrica, la Public Power Corporation. Probabilmente però le loro proteste rimarranno inascoltate, perché il governo di Samaras si muove ormai sul filo del rasoio e degli equilibrismi linguistici, puntando su uno stato permanente di emergenza e di paura.
Dall'inizio della crisi il debito pubblico è quasi raddoppiato raggiungendo la quota impressionante del 189% del PIL, e sconfessando bruscamente tutte le previsioni dei piani di austerità, che indicavano una progressiva discesa proprio a partire dal 2013. Negli ultimi tre anni sono stati persi posti di lavoro nel settore privato al ritmo di 1000 al giorno, e in cambio degli aiuti della trojka il governo Samaras si è impegnato a licenziare 15.000 dipendenti pubblici entro quest’anno: cosa che nella migliore delle ipotesi provocherà un ulteriore crollo dei consumi e delle entrate tributarie, vanificando in pratica la riduzione della spesa pubblica per stipendi. A causa di continui errori nelle stime degli incassi dalle vendite, il governo ha mancato l’obiettivo di privatizzare €3 miliardi di beni pubblici lo scorso anno e per assicurare la trojka ha alzato il tiro per i prossimi anni: €11 miliardi di privatizzazioni entro il 2016 e €50 miliardi complessivi entro il 2019. In buona sostanza si tratta della più grande vendita all’ingrosso di un intero paese mai avvenuta nella storia, la quale creerà un precedente che deve fare riflettere soprattutto noi italiani, che potremo essere i prossimi ad essere spogliati di tutto il nostro patrimonio pubblico, con il solito becero conformismo e l’indifferenza con cui abbiamo accolto in passato simili operazioni di rapina ed espropriazione: è una necessità che ci impongono i “mercati” per evitare di finire come la Grecia e tutti sanno che il nostro stato (cioè noi stessi) è spendaccione e inefficiente, mentre i privati sono bravi, belli e produttivi. E sulla scia di questa scemenza collettiva, al grido di “viva lo stato minimo!” perorato da PD, PDL e persino dal Movimento 5 Stelle (il quale si renderà responsabile di questo scempio, quando gli italiani si accorgeranno che tutto ciò, tutta questa crisi, tutta questa sofferenza, erano fortemente “volute” e non frutto dell’ignoranza e dell’incompetenza), le nazioni forti, prima fra tutte la Germania, non solo si accaparreranno nel silenzio più assoluto gran parte del nostro patrimonio artistico, storico, ambientale, ma stanno già attivandosi per portarsi via la nostra stessa migliore manodopera qualificata.
E senza mezzi termini, quando uno stato diventa povero di proprietà e beni pubblici e privo di competenze tecniche (e anche umanistiche, giuridiche, “politiche”), è destinato prima o dopo a diventare una colonia, una nazione satellite, un paese del Terzo Mondo. E questo non lo diciamo solo noi bloggers di frontiera o economisti isolati qua e la in mezzo allo sterminato deserto dei Tartari italiano, ma tutti i maggiori analisti economici e finanziari del mondo (basta farsi un giro sui siti e sui giornali americani, inglesi, giapponesi, australiani, per capire di cosa stiamo parlando), non ultimo lo stesso premio Nobel per l’economia americano Paul Krugman, che riferendosi proprio all’Italia e alla Spagna, aveva detto tempo fa: “Quello che è successo è che entrando nell’euro, la Spagna e l’Italia hanno ridotto loro stessi a paesi del Terzo Mondo, che prendono in prestito la moneta di qualcun’altro, con tutte le perdite di flessibilità che tale operazione comporta. In particolare, siccome i paesi dell’area euro non possono stampare moneta neanche in casi di emergenza, sono soggetti a interruzioni di finanziamenti, a differenza dei paesi che invece hanno mantenuto la propria moneta. Il risultato è quello che abbiamo tutti sotto gli occhi”.
Intendiamoci, questi progetti di cooperazione internazionale e di scambio di competenze e conoscenze sono molto interessanti ed efficaci, ma solo quando presentano caratteristiche di reciprocità, multilateralità e non sono a senso unico: dai paesi poveri e disastrati verso l’unica nazione ricca e vincente, e mai viceversa. Perché, allo stesso modo di ciò che accade con lo scambio delle merci e dei capitali, si verrebbe a creare all’interno dell’eurozona uno sbilanciamento di forza lavoro qualificata a vantaggio dell’unico grande paese in surplus e a svantaggio di quelli in deficit. Condannando in pratica questi ultimi alla regressione produttiva e alla marginalizzazione nei settori a scarso valore aggiunto e innovativo. E questa è solo l’ultima sfaccettatura del saccheggio in corso, che sta avvenendo in tempo reale, sotto i nostri occhi. Mentre noi siamo impegnati ad assistere alla seconda elezione di re Giorgio Napolitano II e all’imminente insediamento del prossimo governo Amato, personaggi cioè che sono stati tra i principali artefici della distruzione del tessuto produttivo e sociale italiano, fin dai tempi dell’ingresso dell’Italia nello SME del 1979, e oggi hanno il compito specifico di difendere e tutelare la classe politica corresponsabile del disastro. Gli italiani sono talmente illusi e imbesuiti da credere che coloro che hanno “scientemente” spinto il paese verso il baratro siano gli stessi a farlo riemergere dagli abissi: misteri della fede. Dove arriva l’idolatria mistica, la ragione per forza di cose deve arretrare.
Grazie ai benefici acquisiti con l’introduzione dell’euro, che annullando la normale fluttuazione dei tassi di cambio ha cancellato di colpo l’unico strumento di difesa delle economie deboli nei confronti di quella forte, la Germania ha di fatto stravolto gli equilibri politici-economici fino ad allora esistenti in Europa, diventando l’unico paese egemone in mezzo ad una serie di paesi cuscinetto o colonie. E ben consci di questo ruolo, i tedeschi non hanno più alcun imbarazzo e pudore a comportarsi come un paese di conquistatori ed invasori: in attesa di mettere le mani sugli ultimi pezzi pregiati aziendali e patrimoniali dell’Italia, la Germania si porta via le nostre migliori competenze tecniche disponibili, formate grazie ai sacrifici delle famiglie italiane e agli investimenti nel nostro sistema scolastico statale o privato. Noi seminiamo e i tedeschi raccolgono i frutti. E c’è una ragione precisa che spinge i tedeschi alla ricerca disperata di nuova manodopera qualificata: mentre nell’eurozona continua ad aumentare il numero di persone in età da lavoro, in Germania invece diminuisce progressivamente. Come si può vedere nel grafico sotto, la forza lavoro della Germania fra i 15 e i 64 anni si è ridotta del 2% negli ultimi undici anni, al contrario della media dell’intera zona euro, dove è aumentata del 7%.
Questo potrebbe anche essere uno dei motivi che spiega i livelli record di bassa disoccupazione della Germania, rispetto alla crescita che si registra nell’eurozona, dove gli ultimi dati confermano la salita del tasso di disoccupazione fino al 12%. Da notare poi che i tedeschi non cercano manodopera generica, perché questa può essere reperita a buon mercato tra le folte schiere degli immigrati che arrivano dall’Est Europa, dalla Turchia o dall’Africa, ma persone molto istruite e specializzate, che in qualunque paese rappresentano il serbatoio principale da cui partire per costruire la futura classe imprenditoriale e dirigente: un paese senza quadri e competenze è un paese senza futuro. E questo la Germania pare saperlo bene, mentre l'Italia crede ancora che costringere i nostri migliori cervelli alla fuga e tenersi la feccia sia una mossa furba che ci concede onere e lustro in tutto il mondo. Ripetiamo che mandare i nostri ragazzi in Germania a farsi le ossa e l’esperienza potrebbe essere un grande vantaggio per noi in un’ottica di lungo periodo (sperando che un giorno l’Italia riesca ad uscire dai pantani e una parte di questi ragazzi possa rientrare in patria con un notevole bagaglio di conoscenze e know how), ma in una fase di crisi come questa risulta solo l’ultimo affronto che i tedeschi hanno fatto al presunto spirito di cooperazione e collaborazione che “dovrebbe” animare questa strampalata unione monetaria. Invece di aiutare la ripresa delle aziende italiane, la Germania non solo ostacola tutti i piani di politica economica espansiva che potrebbero favorire la crescita, ma preferisce addirittura dare il colpo di grazia agli storici concorrenti privandoli della linfa vitale che assicura l’operosità, il rinnovamento, la creatività e il ricambio generazionale delle nostre aziende.
Quelli che ancora credono al sogno europeo, alla chimera degli Stati Uniti d’Europa che fino ad oggi è servita a confondere e depistare gli allocchi di turno, dovrebbero dare un’occhiata alla lunga lista di svendite di pezzi importanti della nostra industria nazionale che si è ampliata senza sosta in questi ultimi anni, per capire meglio la portata della catastrofe economica in cui ci siamo volontariamente impelagati. Nel nome del liberismo selvaggio e dell’apertura incondizionata ai “mercati”, di indirizzi cioè di politica economica più che mai discutibili e anacronistici che in misura così sconsiderata e scriteriata hanno contagiato soltanto i paesi dell’eurozona, mentre il resto del mondo si è guardato bene da seguire alla lettera i dettami di questa scellerata dottrina accademica-teologica (i cui dogmi, come abbiamo visto, sono basati perlopiù da manipolazioni e strumentalizzazioni dei dati reali) e ha adottato misure più o meno protezionistiche per difendere il proprio tessuto economico nazionale. Curiosa poi la circostanza che mentre i francesi hanno fatto incetta di tutto ciò che si poteva razzolare in Italia, dalla grande distribuzione all’energia, i tedeschi si sono limitati ad acquisire marchi di prestigio (come per esempio Ducati) dall’elevato grado di innovazione tecnologica, dalla diffusa riconoscibilità a livello internazionale e dalla spiccata tendenza a penetrare nei mercati esteri. Strategia questa che conferma ciò che abbiamo prima detto: la Germania si propone di diventare l’unico polo industriale sviluppato d’Europa, dedicato principalmente alle esportazioni, lasciando ai paesi della periferia il compito di produrre a buon prezzo la componentistica e i beni a basso o nullo contenuto tecnologico (le viti e i bulloni, per intenderci).
Ma c’è un altro aspetto inquietante di tutta la vicenda: la svendita a prezzi di realizzo del patrimonio demaniale dello stato. Mentre in Italia i progetti del ministro Grilli di svendere e privatizzare circa 15-20 miliardi di beni pubblici all’anno (comprese le partecipazioni in aziende come Eni, Enel, Finmeccanica), procedono piuttosto a rilento, in Grecia i programmi vanno avanti rapidamente, a causa delle scadenze di rimborso delle rate dei piani di salvataggio garantiti dalla trojka FMI, BCE, UE. In tutto sono in vendita in questo momento circa 70.000 lotti, che comprendono distese di coste incontaminate, porti turistici, bagni termali, stazioni sciistiche e intere isole. Persino le quote del monopolio statale sul gioco d’azzardo sono in vendita al migliore offerente. L’isola di Rodi che per un terzo è ancora di proprietà dello stato è già per gran parte all’asta e a questa frenetica vendita ad incanto partecipano un po’ tutti, dall’emiro del Quatar, agli immancabili oligarchi russi fino ai soliti tedeschi e francesi. Si tratta in pratica di un’espropriazione forzosa di un pezzo di storia dell’antica e millenaria civiltà greca, che aveva insegnato alle generazioni successive cosa siano la democrazia, l’etica, i pilastri su cui si regge un buon governo. Parole al vento, stuprate dall’ingordigia del denaro e dal meccanismo infernale del debito senza fine, che si perpetua nel tempo senza alcuna soluzione di continuità.
Ma se Rodi è in procinto di essere colonizzata senza armi dagli invasori stranieri, Corfù è già di fatto un resort della famiglia di banchieri internazionali dei Rothschild, che ambisce a mettere le mani anche sullo storico palazzo reale dell’isola. A proposito di palazzi, la Grecia ha anche messo in vendita il colossale palazzo del Ministero della Cultura ad Atene, il quartier generale della polizia, gli edifici che ospitano i ministeri della salute, dell’istruzione, della giustizia e persino l’ambasciata greca in Holland Park a Londra, alla modica cifra di 22 milioni di sterline. Una pessima idea quella di coprire un debito a breve e medio termine con la vendita di beni immobiliari, su cui successivamente si dovrà pagare un flusso costante di affitti ai privati. Lo stato si priva a prezzi di svendita di un asset di proprietà, che a parte la manutenzione periodica non comporta alcun costo, aprendo le casse a delle spese immediate che molto probabilmente causeranno la nascita di nuovo debito a breve e medio termine, che con il passare del tempo e l’alienazione di tutti i beni immobiliari e strumentali, sarà sempre più difficile da rimborsare. Una pazzia contabile e fiscale bella e buona, che però rappresenta uno dei principi fondanti di questa sciagurata e disgraziata eurozona: le privatizzazioni sono infatti un prerequisito essenziale per ricevere i fondi di salvataggio, senza i quali la Grecia dovrebbe immediatamente dichiarare default e uscire dalla zona euro. Un ricatto in pieno stile mafioso, tipico delle peggiori e più spietate organizzazioni criminali.
Tuttavia, la propaganda mediatica e il terrorismo psicologico che agisce a pieno regime in Grecia impedisce ai cittadini di capire che proprio l’uscita dall’euro potrebbe essere l’unica via d’uscita da questa tragedia nazionale, che ha trasformato un intero paese una volta democratico in un emporio a cielo aperto. E nonostante tutti sappiano che le privatizzazioni non riusciranno a risolvere i problemi strutturali della Grecia, si continua ad andare avanti verso il calvario, con i profittatori e gli speculatori di tutto il mondo pronti a fare affari sulle spalle di un popolo ormai stremato ed impotente. L’esempio della privatizzazione dell’acqua è lampante: dopo che il governo greco ha privatizzato la rete idrica, la qualità del servizio è scesa notevolmente ed è aumentato il prezzo di erogazione. E proprio sull’onda di questo fallimento annunciato, i sindacati e i lavoratori stanno attuando una strenua ed eroica resistenza per evitare che venga privatizzata la società ferroviaria pubblica Hellenic e la principale compagnia statale di produzione e distribuzione di energia elettrica, la Public Power Corporation. Probabilmente però le loro proteste rimarranno inascoltate, perché il governo di Samaras si muove ormai sul filo del rasoio e degli equilibrismi linguistici, puntando su uno stato permanente di emergenza e di paura.
Dall'inizio della crisi il debito pubblico è quasi raddoppiato raggiungendo la quota impressionante del 189% del PIL, e sconfessando bruscamente tutte le previsioni dei piani di austerità, che indicavano una progressiva discesa proprio a partire dal 2013. Negli ultimi tre anni sono stati persi posti di lavoro nel settore privato al ritmo di 1000 al giorno, e in cambio degli aiuti della trojka il governo Samaras si è impegnato a licenziare 15.000 dipendenti pubblici entro quest’anno: cosa che nella migliore delle ipotesi provocherà un ulteriore crollo dei consumi e delle entrate tributarie, vanificando in pratica la riduzione della spesa pubblica per stipendi. A causa di continui errori nelle stime degli incassi dalle vendite, il governo ha mancato l’obiettivo di privatizzare €3 miliardi di beni pubblici lo scorso anno e per assicurare la trojka ha alzato il tiro per i prossimi anni: €11 miliardi di privatizzazioni entro il 2016 e €50 miliardi complessivi entro il 2019. In buona sostanza si tratta della più grande vendita all’ingrosso di un intero paese mai avvenuta nella storia, la quale creerà un precedente che deve fare riflettere soprattutto noi italiani, che potremo essere i prossimi ad essere spogliati di tutto il nostro patrimonio pubblico, con il solito becero conformismo e l’indifferenza con cui abbiamo accolto in passato simili operazioni di rapina ed espropriazione: è una necessità che ci impongono i “mercati” per evitare di finire come la Grecia e tutti sanno che il nostro stato (cioè noi stessi) è spendaccione e inefficiente, mentre i privati sono bravi, belli e produttivi. E sulla scia di questa scemenza collettiva, al grido di “viva lo stato minimo!” perorato da PD, PDL e persino dal Movimento 5 Stelle (il quale si renderà responsabile di questo scempio, quando gli italiani si accorgeranno che tutto ciò, tutta questa crisi, tutta questa sofferenza, erano fortemente “volute” e non frutto dell’ignoranza e dell’incompetenza), le nazioni forti, prima fra tutte la Germania, non solo si accaparreranno nel silenzio più assoluto gran parte del nostro patrimonio artistico, storico, ambientale, ma stanno già attivandosi per portarsi via la nostra stessa migliore manodopera qualificata.
E senza mezzi termini, quando uno stato diventa povero di proprietà e beni pubblici e privo di competenze tecniche (e anche umanistiche, giuridiche, “politiche”), è destinato prima o dopo a diventare una colonia, una nazione satellite, un paese del Terzo Mondo. E questo non lo diciamo solo noi bloggers di frontiera o economisti isolati qua e la in mezzo allo sterminato deserto dei Tartari italiano, ma tutti i maggiori analisti economici e finanziari del mondo (basta farsi un giro sui siti e sui giornali americani, inglesi, giapponesi, australiani, per capire di cosa stiamo parlando), non ultimo lo stesso premio Nobel per l’economia americano Paul Krugman, che riferendosi proprio all’Italia e alla Spagna, aveva detto tempo fa: “Quello che è successo è che entrando nell’euro, la Spagna e l’Italia hanno ridotto loro stessi a paesi del Terzo Mondo, che prendono in prestito la moneta di qualcun’altro, con tutte le perdite di flessibilità che tale operazione comporta. In particolare, siccome i paesi dell’area euro non possono stampare moneta neanche in casi di emergenza, sono soggetti a interruzioni di finanziamenti, a differenza dei paesi che invece hanno mantenuto la propria moneta. Il risultato è quello che abbiamo tutti sotto gli occhi”.
mercoledì 1 maggio 2013
Rassegna Stampa
Intervista a M.Landini.
Oggi è a rischio la tenuta sociale, bisogna cambiare strada: subito un governo ma diverso da Monti. È necessario puntare a un partito del lavoro
12/04/2013 Unità
«IL LAVORO TORNI AL CENTRO DELLA POLITICA»
MILANO Sull'emergenza occupazionale in corso, il segretario della Fiom e il presidente di Confindustria non potrebbero essere più d'accordo:
«Il rischio che stiamo correndo, con il continuo aumento della disoccupazione, è che venga meno la tenuta sociale. La storia ci insegna che in Europa i momenti di esplosione massima della disoccupazione hanno sempre portato a situazioni tragiche » afferma Maurizio Landini. «Se non agiamo subito, quest'anno perderemo interi pezzi del nostro tessuto produttivo, perchè chi chiude ora non riaprirà più in futuro».
È sulla soluzione da ricercare per farvi fronte, piuttosto, che il numero uno delle tute blu Cgil - che guarda con simpatia ed attenzione l'iniziativa politica del ministro Barca e chiede «un partito del lavoro» - si dimostra più difficile da accontentare.
Anche lei invoca un governo al più presto, come già ha fatto Giorgio Squinzi?
«Certo che serve un governo in tempi brevi, ma non un governo qualsiasi, ad ogni costo. Serve un governo per cambiare le politiche dell'esecutivo Monti, soprattutto sul lavoro e sulle pensioni. Altrimenti, se non ci sono le condizioni, mi auguro che il parlamento trovi un'altra soluzione, anche attraverso una riforma elettorale. Uno stallo così non può durare cinque anni. Tanto più che non abbiamo solo un problema di difesa dell'occupazione e del sistema produttivo, ma dobbiamo anche affrontare i tentativi di alcuni di sfruttare la crisi per ottenere una modifica radicale del sistema dei rapporti sociali».
Quanto radicale?
«Gli attacchi continui al contratto nazionale di lavoro rischiano di portare alla fine del sindacato confederale che vuol rappresentare tutti i lavoratori, per arrivare invece a tanti sindacati aziendali e corporativi. Quindi, in ultima analisi, alla competizione tra i lavoratori. Se il sindacato si limita a difendere quello che ha, cercando solo di limitare i danni, significa che non ha capito quello che sta succedendo».
Che cosa deve fare, invece, il sindacato?
«L'esito delle ultime elezioni, con una quota di astensione senza è precedenti - intorno al 30% se si considerano anche le schede bianche o nulle - e più della metà degli italiani che non si è riconosciuta nelle forme classiche dei partiti - se ai non votanti aggiungiamo anche i consensi ottenuti dal movimento 5 stelle - non parla solo alle forze politiche. La crisi della rappresentanza è anche sindacale, la richiesta del cambiamento è rivolta anche a noi».
In che senso?
«Nel vuoto di rappresentanza sociale che si è creato ci sono anche nostre responsabilità, come ci dice la drammatica solitudine dei lavoratori che si sono tolti la vita dopo aver perso il posto, convinti che nessuno potesse dar loro una mano. Il sindacato non può permettersi di lasciare solo nessuno».
Si riferisce ai lavoratori precari?
«A parità di lavoro, devono sempre corrispondere parità di diritti e di retribuzione. Altrimenti, nella giungla contrattuale che contrappone tra loro i lavoratori, rischiano di venire meno le ragioni stesse dell'esistenza del sindacato. Il calo della sindacalizzazione è un fatto in tutta Europa. Il cambiamento deve essere anche una priorità del sindacato, noi per primi dobbiamo cambiare il nostro modo di agire».
I suoi colleghi di Fim e Uilm la accuserebbero di fare più politica che azione sindacale per firmare contratti.
«La Fiom non rinuncia all'obiettivo di cambiare questa società, che è una società ingiusta e sbagliata. Ma per la Fiom vale sempre il merito, e nel merito dei problemi si possono trovare soluzioni ai problemi, dunque si possono firmare accordi. La trattativa con le imprese cooperative metalmeccaniche - da cui la Fiom non è stata esclusa, a differenza di quanto fatto dalle industrie rappresentate da Federmeccanica - potrebbe ad esempio concludersi con un accordo firmato anche da noi, se verranno confermate le condizioni su cui finora è emersa un'intesa».
Quali sono queste condizioni?
«Le imprese cooperative metalmeccaniche, in caso di crisi aziendale, potrebbero impegnarsi a non licenziare, ma ad attivare contratti di solidarietà tra tutti i lavoratori».
Intervista a M.Landini.
Oggi è a rischio la tenuta sociale, bisogna cambiare strada: subito un governo ma diverso da Monti. È necessario puntare a un partito del lavoro
12/04/2013 Unità
«IL LAVORO TORNI AL CENTRO DELLA POLITICA»
MILANO Sull'emergenza occupazionale in corso, il segretario della Fiom e il presidente di Confindustria non potrebbero essere più d'accordo:
«Il rischio che stiamo correndo, con il continuo aumento della disoccupazione, è che venga meno la tenuta sociale. La storia ci insegna che in Europa i momenti di esplosione massima della disoccupazione hanno sempre portato a situazioni tragiche » afferma Maurizio Landini. «Se non agiamo subito, quest'anno perderemo interi pezzi del nostro tessuto produttivo, perchè chi chiude ora non riaprirà più in futuro».
È sulla soluzione da ricercare per farvi fronte, piuttosto, che il numero uno delle tute blu Cgil - che guarda con simpatia ed attenzione l'iniziativa politica del ministro Barca e chiede «un partito del lavoro» - si dimostra più difficile da accontentare.
Anche lei invoca un governo al più presto, come già ha fatto Giorgio Squinzi?
«Certo che serve un governo in tempi brevi, ma non un governo qualsiasi, ad ogni costo. Serve un governo per cambiare le politiche dell'esecutivo Monti, soprattutto sul lavoro e sulle pensioni. Altrimenti, se non ci sono le condizioni, mi auguro che il parlamento trovi un'altra soluzione, anche attraverso una riforma elettorale. Uno stallo così non può durare cinque anni. Tanto più che non abbiamo solo un problema di difesa dell'occupazione e del sistema produttivo, ma dobbiamo anche affrontare i tentativi di alcuni di sfruttare la crisi per ottenere una modifica radicale del sistema dei rapporti sociali».
Quanto radicale?
«Gli attacchi continui al contratto nazionale di lavoro rischiano di portare alla fine del sindacato confederale che vuol rappresentare tutti i lavoratori, per arrivare invece a tanti sindacati aziendali e corporativi. Quindi, in ultima analisi, alla competizione tra i lavoratori. Se il sindacato si limita a difendere quello che ha, cercando solo di limitare i danni, significa che non ha capito quello che sta succedendo».
Che cosa deve fare, invece, il sindacato?
«L'esito delle ultime elezioni, con una quota di astensione senza è precedenti - intorno al 30% se si considerano anche le schede bianche o nulle - e più della metà degli italiani che non si è riconosciuta nelle forme classiche dei partiti - se ai non votanti aggiungiamo anche i consensi ottenuti dal movimento 5 stelle - non parla solo alle forze politiche. La crisi della rappresentanza è anche sindacale, la richiesta del cambiamento è rivolta anche a noi».
In che senso?
«Nel vuoto di rappresentanza sociale che si è creato ci sono anche nostre responsabilità, come ci dice la drammatica solitudine dei lavoratori che si sono tolti la vita dopo aver perso il posto, convinti che nessuno potesse dar loro una mano. Il sindacato non può permettersi di lasciare solo nessuno».
Si riferisce ai lavoratori precari?
«A parità di lavoro, devono sempre corrispondere parità di diritti e di retribuzione. Altrimenti, nella giungla contrattuale che contrappone tra loro i lavoratori, rischiano di venire meno le ragioni stesse dell'esistenza del sindacato. Il calo della sindacalizzazione è un fatto in tutta Europa. Il cambiamento deve essere anche una priorità del sindacato, noi per primi dobbiamo cambiare il nostro modo di agire».
I suoi colleghi di Fim e Uilm la accuserebbero di fare più politica che azione sindacale per firmare contratti.
«La Fiom non rinuncia all'obiettivo di cambiare questa società, che è una società ingiusta e sbagliata. Ma per la Fiom vale sempre il merito, e nel merito dei problemi si possono trovare soluzioni ai problemi, dunque si possono firmare accordi. La trattativa con le imprese cooperative metalmeccaniche - da cui la Fiom non è stata esclusa, a differenza di quanto fatto dalle industrie rappresentate da Federmeccanica - potrebbe ad esempio concludersi con un accordo firmato anche da noi, se verranno confermate le condizioni su cui finora è emersa un'intesa».
Quali sono queste condizioni?
«Le imprese cooperative metalmeccaniche, in caso di crisi aziendale, potrebbero impegnarsi a non licenziare, ma ad attivare contratti di solidarietà tra tutti i lavoratori».
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